martedì 23 giugno 2009

virtuale

Mi affaccio al giardino dalla porta finestra della sala da pranzo. Il giardino riceve la luce tersa di un tardo pomeriggio di giugno. I suoi colori balzano agli occhi, un’esplosione. Però non ho voglia di uscire, pur sapendo che sarebbe un modo di ritemprarmi. Dopo una giornata di lavoro davanti allo schermo del computer a fare fatture e altre cose simili, la mente è ottenebrata dalla stanchezza e dal fumo, e anche da una specie di noia simile alla disperazione. Sto un attimo a guardare lo stesso, a pensare che ciò che vedo è il mondo reale, là fuori. Ma è già tardi. Potessi, le cose sarebbero molto diverse. Ma quando? Quando mai? Forse mai più. Per tanti motivi.


Mi sono promessa di rileggere Lucrezio che tanto ha contato nel mio amato XVII° secolo. Ho già guardato Wikipedia per rinfrescarmi la memoria. Per ora scorro un manuale di Leopoldo sugli autori romani, giusto per piazzare Lucrezio in contesto. Anche se il mio latino è in disarmo, ci provò: una specie di puntiglio o di vecchia consuetudine con la carta stampata, ma non so per quanto tempo riuscirò a sostenere questa sfida. Poi mentre cerco il sonno che mi sfugge, penso a tutte le volte che ho consultato l’incredibile Wikipedia senza andare più in fondo. Girare intorno a un’opera senza penetrarla, guardarla con gli occhi di altri senza mettere in moto la propria mente... E’ come i matrimoni per procura dei re di Francia che conoscevano il volto della promessa soltanto grazie a un cameo o un ritratto. Rammento tante occasioni del genere e mi addormento con l’idea che la cultura, la mia almeno, invece di un oceano da esplorare, stia diventando una bassa e infinita palude. Malsana, anche? Pericolosa. Mi sembra, infatti, che la mia capacità di apprendimento si stia annullando perché non riesco a concentrarmi come facevo un tempo. Tutto quel che leggo scorre senza lasciare traccia sulla mia memoria. Colpa dell’età? Fa paura. Quando mi sveglio, mi riprometto una maggiore attenzione, ci vuole soltanto più allenamento. Alle 5.30, con l’alba appena spuntata e il cielo che si tinge di rosa, con il caffè e le pastiglie obbligatorie, le buone intenzioni sono facili. Riparto.


Per prima cosa, i messaggi e-mail. Nulla. Per forza, ho controllato ieri sera a mezzanotte. Non c’era da sperarci, eppure... Sempre più radi i messaggi dei veri amici, in mezzo allo spam, alla pubblicità, alle sollecitazioni professionali. Non mi ama dunque più nessuno, non mi cerca più nessuno? Siamo oggettivi, non cerco più gli altri neanche io, se non a tratti, dovendo fare un serio sforzo di volontà. Sono proprio una somara. Oggi me ne devo proprio occupare, dei miei amici. Li sto perdendo a uno a uno, magari dopo averli ritrovati su Internet a distanza di anni. Fra poco me ne resto, se continua così, con quest’attutimento nell’anima che porta al silenzio, alla totale solitudine, persino alla morte se il cervello si appiattisce del tutto. Così dice la scienza. C’è anche Facebook. Mi ci ha messa qualcuno. Non so come utilizzarlo e neanche se voglio imparare. Una mia amica, protestante evangelista lo considera uno strumento del diavolo. Quando ci andò sopra suo figlio sedicenne, fu un dramma in famiglia, poi mi giunse un suo messaggio su Skype in cui lei si rallegrava perché il figliolo si era tolto da lì, Lode al Signore! Io non sono evangelista e neanche ci credo ai poteri mefitici di Facebook. Temo invece l’invasione della mia vita privata. E poi, se non riesco a coltivare gli amici di sempre, come farò mai a coltivarne di nuovi, apparsi dal nulla, di cui non so niente, gente brava di sicuro, o forse no. Come si fa ad amare o a capire persone che non si conoscono? Temo anche le confidenze, private o pubbliche. Su Facebook sono pubbliche per forza. Entrare in quel gioco sarebbe un’ingenuità, uscirne probabilmente difficile, senza lasciare brandelli si se stesso.


E tuttavia, nutro qualche serio dubbio sollevato da un’altra persona amica, la quale coltiva la modernità con passione. La modernità come pegno di prolungata gioventù? Io ho sempre rifiutato il conformismo, però dal fondo del mio essere, senza esternazioni particolari. Nel mio convivere con il mondo, mantengo un atteggiamento tradizionalista, o borghese che si voglia. Un po’ vecchiotto, diciamo e sicuramente qualcuno lo giudica così. Forse dovrei, sì, tuffarmi nella modernità, chattare anch’io su Twitter, 160 battute per volta, con il mondo intero, sui più variegati argomenti, cioè su niente, fare parte di questa specie di catena di Sant’Antonio nuova maniera. Per stare dentro la corrente, piuttosto che desolatamente fuori. Chissà dove mi porterebbe? Chissà come finisce? Ci si può perdere correndo lungo queste linee di parole infinite che avvolgono il mondo come ghirlande, che spariscono nel nulla ma, intanto, si sovrappongono, si sovrappongono. Parole, immagini...


Il principe Carlo d’Inghilterra doveva partecipare anni fa a una conferenza in un qualche lontano paese del Commonwealth (esiste ancora?). Non poteva: aveva altri impegni improrogabili. Scelse allora una soluzione molto innovativa: l’ologramma, tutto quanto in diretta. Uno sdoppiamento, una riproduzione, un fantasma? mi sono chiesta, cercando di capire. L’incredibile Wikipedia scrive che non si tratta di una semplice immagine tridimensionale. Per ragioni tecniche specifiche, l’occhio umano vede l’ologramma come un oggetto vero che cambia posizione quando si sposta lo sguardo dello spettatore o lo spettatore stesso. Incredibile. Io ero arrivata ai videofonini, a Skype e mi pareva già un miracolo, una di quelle cose fantascientifiche che ci immaginavamo da ragazzi. Ora l’ologramma, in cui ognuno di noi potrebbe essere trasformato ad Aeternum, visto che può anche essere archiviato tale quale, oggetto finto/vero o vero/finto, chiuso nella tomba di una memoria elettronica, risuscitato a commando (di altri). Non ci arrivo più: è come un film o una fotografia? E’ di più? Ci fa entrare in uno spazio/tempo ignoto, dai parametri sconosciuti. Arriverà il momento in cui, da ologrammi, parleremo ad altri ologrammi, perché no? Duplicheremo le cose per farle insieme, ma in me serpeggia il dubbio che quelle cose non si potranno toccare, non avranno lo stesso profumo o sapore di qua e di là. La nebbia, virtuale anch’essa, viola come il lutto, verde veleno, giallo pernicioso, che ha invaso la mia mente si dirada un po’. Resterà dunque qualcosa che potremo scegliere noi, fare noi in carne e ossa, come ci piace, qualcosa che dipenderà da noi. Sto vaneggiando. Sento già Leopoldo che sogghigna: "Mamma, metti sempre tutto sul tragico. Facebook, Twitter, Google sono strumenti, strumenti e basta, li puoi usare o non usare. Nessuno ti punta una pistola alla tempia. La scienza non si può fermare". Questo, l’ho capito, ma ho paura di lasciare del tutto la zavorra. Non posso adottare ciecamente cose che non capisco, di cui nessuno sa dove porteranno. Le posso provare, e l’ho sempre fatto, ma devo potermi fermare quando voglio e dire, come il bambino a bordo di un aereo in volo: Mamma, voglio scendere in cortile!


Finisce qui, su questa nota comica, la mia protesta contro l’invasione della tecnologia nella mia, nelle nostre vite personali? Si, finisce qui. E’ passata una settimana da quando ho scritto questo pezzo, perfettamente convinta. Però, in questa settimana è scoppiata la rivolta del popolo iraniano contro l’elezione truccata de 12 giugno. Sono successi in stretta correlazione dei fatti che mi hanno fatto cambiare idea. Internet, YouTube, Facebook, Twitter ci hanno consentito, grazie al coraggio dei manifestanti e alla loro intelligenza tecnologica, di seguire passo passo gli eventi. E grazie a questi strumenti, come li chiama Leopoldo, forse la protesta avrà un minimo di successo di riuscire e i morti - già tanti - non saranno morti invano. Sono trent’anni che aspetto questo momento. Avrei voluto che non ci fossero i morti. Ma questa porta stretta, la dovevamo passare per arrivare non dico a un cambio di regime, ma al "Direttorio, dopo il Terrore", un piccolo cambiamento dalle grandi prospettive. E oggi, vorrei aver superato le mie reticenze, aver imparato a usare meglio YouTube, Facebook, aver dialogato su Twitter, non sul niente come credevo, ma sul senso reale, non virtuale, che questi strumenti ci hanno consentito di raggiungere. Avrei voluto dare da ologramma a ologramma, la mia solidarietà a un popolo che merita rispetto per il suo coraggio e la sua determinazione a raggiungere la libertà.


vizi & follie

Oggi ho avuto una giornata infernale, eppure neanche diversa da altre. Sono tutte così, ormai. Il tempo sminuzzato in una miriade di cose da fare. Preparare la spedizione del vino in Germania con fattura, documento di trasporto, etichette, istruzioni chiare e precise per il corriere il quale, come tutti i corrieri, ascolta con un orecchio e dimentica con l’altro. Poi la documentazione del vino da portare a Livorno e a Piombino. E telefonate e fax, uno squillo continuo. Niente di che, si dirà, tutte le segretarie fanno queste cose senza avere crisi di nervi. Appunto, non sono una segretaria, queste cose le faccio da poco, le sbaglio, odio sentire il telefono tutto il giorno, spesso smarrisco documenti importanti, blocchetti fiscali e cose del genere. Non sopporto l’accumularsi di scartoffie sulla mia scrivania che, un tempo, era in severo ordine quando lavoravo alle cose mie, ragion per cui spesso butto anche cose che non dovrei nella cesta che poi andrà ad alimentare la caldaia a legna. Sono perennemente in lite con la commercialista: “signora, le fatture devono essere fatte nello stesso mese del relativo documento di trasporto.” E io a gridare: “Non ho potuto, il cliente non mi ha mandato i suoi dati per tempo. E cosa mi faranno i finanzieri? Mi arresteranno per evasione dell’Iva su una fattura di centoquindici euro?” E lei: “Ma poi se viene un controllo?” E io di rimando: “Mi chiami, ci parlo io.” Mi guarda con aria smarrita, per ora ha più paura di me che della finanza. “Le segnalavo solo…” e io, un po’ più mansueta: “Ha ragione e fa bene, ma io ho un credito d’Iva di decine di migliaia di euro con tutti gli investimenti che faccio. Un po’ di rispetto, insomma! Gli evasori veri vanno a spasso per le strade d’Italia e non se ne accorge nessuno”.

Spalanca gli occhi, la Cinzia, davanti alle mie sfuriate. Il mio non è un atteggiamento ragionevole e, per lei, questi regolamenti, queste procedure, queste leggi comunitarie e nazionali, sono sacrosante. Lei deve farle rispettare, nell’interesse mio e anche della propria professionalità. Ma io resisto, ogni qualvolta mi si vuole imporre una cosa irrazionale. Resisto ancora di più se, oltre l’irrazionalità, c’è anche la minaccia. Questa è la procedura, dicono, e il mancato rispetto della tal cosa comporta una sanzione di 1500 euro, di 6000 euro, di 9000 euro… Pace santa, preferisco pagare anche se è un costo aggiuntivo sul mio magro bilancio. A fare il vino, non ci si guadagna per anni e anni, il tempo che ci vuole per piantare e crescere i vigneti, per farlo, il vino, per lasciarlo pure invecchiare. Poi quando il vino c’è, pronto ad andare sul mercato, arriva pure la crisi economica del mondo globale. Oltre alle angherie burocratiche che non sono mai mancate nel frattempo.


Ci sarebbe da scriverci sopra un romanzo, sulle regole e le leggi e sulle procedure e i relativi corsi di formazione (costosi e regolarmente mal fatti) per affrontarle: nel caso mio la 626 sulla sicurezza, l’HCCP sull’igiene alimentare, il patentino per i prodotti di trattamento in agricoltura… I principi sono buoni in partenza ma poi i burocrati, seduti saldamente sui loro privilegi a Bruxelles, nei palazzi delle regioni, a Roma in parlamento, si perdono in una sorta di divagazione onirica dalle mille sfaccettature, nella ricerca dell’assoluta perfezione. E scrivono, scrivono fino all’ubriacatura leggi e regolamenti, debitamente numerati e datati, che sempre risalgono ad altre leggi e altri regolamenti ugualmente numerati e datati, e il vero riferimento e’ all’antenato, il primo fra tutti che si perde nella notte dei tempi, senza alcuna esplicitazione. Scrivono anche tabelle di marcia da rispettare e schede fittissime da riempire. Non sanno e nessuno si azzarda a dire loro che la perfezione perfetta non esiste su questa terra, costa troppo, richiede un tempo infinito e non serve veramente, non ha migliorato niente fin adesso.

Tanti divieti che completano, affinano quelli precedenti, oppressivi, inspiegati e impossibili o quasi da rispettare. Nessuno se ne trova meglio, neanche loro, i genietti nei palazzi di Bruxelles, delle Regioni e dello Stato, tant’è che per ogni disposizione vi è, quasi subito, una deroga, ripetuta puntualmente negli anni. Basterebbero poche cose sensate e comprensibili anche agli imbecilli. Che si rivalgano del senso di responsabilità della gente che, alla fin fine, non manca più di tanto, purché sia veramente attuabile. Il resto serve solo ad alimentare le disfunzioni, le trasgressioni, la corruzione. Brutte parole, lo so, ma dipingono bene brutte situazioni.

Esempi? Tanti. Qualcuno, solo per illustrare. Mi dicono, nelle loro ispezioni:

Loro: signora, mancano doccia, spogliatoi e gabinetti differenziati uomo/donna…
Io: ho solo tre operai di cui una donna part-time che è sposa del capo operaio. Hanno a disposizione doccia, spogliatoio, tutto quanto. Non li usano. Abitano a dieci minuti da qui, preferiscono andare a casa loro. Io non posso obbligarli a lavarsi, è imbarazzante.
Loro: e gli avventizi?
Io: sono tutti senegalesi e mussulmani. La pipì e quant’altro la fanno fuori, per i campi, anche sotto la pioggia, pur di non usare i cessi dei cristiani impuri. Lo stesso vale per la doccia.
Oppure:
Loro: signora, manca la cintura di sicurezza ai suoi trattori…
Io: ci vuole? Io non lo sapevo.
Loro: Non ha fatto il corso 626?
Io: Sì che l’ho fatto. L’ho pagato 900 euro, ma non me l’ha detto nessuno.
Loro: questo è gravissimo. Le devo fare la prescrizione. Andrà tutto in procura.
Io: la faccia e io la contesterò. Quando la FIAT mi vende la macchina, la cintura è incorporata. Come mai, se è obbligatoria sui trattori, non ce la mettono i produttori e non lo dice nessuno.
Loro: la cosa è a carico dell’acquirente.
Io: e quando mai? I miei trattori sono nuovi, omologati CE. Non torna. E i produttori?
I produttori si sono tirati in dietro, avrebbero dovuto richiamare migliaia di trattori, non in regola a dispetto della 626. La spesa sarebbe stata enorme, i dati sono su Internet. La cosa resta dunque a carico dell’acquirente. Qualcosa non torna davvero. USL e associazioni di categoria fanno le loro riunioni interne, nel sancto sanctorum, ma non avvertono nessuno. Ho interpellato i miei colleghi agricoltori, ho raccontato loro la storia. Non ne erano al corrente, certamente non più di quanto non lo fossi io. Si sono spaventati a morte.
1100 Euro di multa perché, quella volta, la lotta fu all’ultimo sangue anche davanti alla procura. Alla fine il magistrato non diede ragione a nessuno. Tagliò la testa al toro, vale a dire diminuì di buona misura la multa ma la fece applicare. Io ero partita per arrivare in fondo e mi divertivo pure. Ma capii a quel punto che conveniva pagare. Non c’era spazio di manovra. Tutto questo per delle cinture che mi sono costate 49 euro cadauna.
Un altro esempio?
Il medico aziendale (dopo aver fatto gli esami e le analisi del caso sugli operai): Ci sarebbe anche la visita ortopedica.
Io: Per che cosa?
Lui: Per la postura. La potatura, la stralciatura, le troppe ore sul trattore. Tutte cose dannose per la postura.
Io: Come si fa? I vigneti stanno sempre sui declivi.
Lui: Proprio per questo.
Io: Sta scherzando. E se non va bene, che fanno? Smettono di lavorare?
Lui: …e poi la sua dipendente è ancora in età fertile.
Io: la signora è ultra-quarantenne…
Lui: Devo comunque accertarmi che questo lavoro sia compatibile con un’eventuale gravidanza.
Io: e se non lo fosse?
Lui: Io ho il dovere di chiederglielo e di fare l’esame del caso.
Io: glielo chieda. La signora è adulta e vaccinata e ha già due figli grandi. Ha bisogno di questo lavoro per vivere. Ho paura che le riderà in faccia. Io, comunque, non glielo pago quest’esame. Oggi questo, domani chissà che altro. Sono stanca di foraggiare le sue velleità corporative.
Non è finita.
Arrivò un foglio raccomandato, proprio la stessa settimana della storia della cintura, in cui il mio comune di residenza mi scriveva che il mio impianto di depurazione e di smaltimento a casa era da rifare.
Io: E perché? Quando l’ho fatto, anni fa, era il fior fiore della tecnologia moderna e funziona ancora benissimo. Ho pagato una fortuna, non l’aveva nessuno allora e neanche adesso, se è per questo. Qua intorno non ci sono le fogne e le acque scure le mandano direttamente nei fossi. Ce l’ho scritto in fronte solo perché ho una pratica protocollata in comune?
Loro: La sua autorizzazione è scaduta.
Io (dopo aver letto l’autorizzazione): Non c’è nessuna scadenza qui.
Loro: Ora c’è. Ha la scelta tra fare un impianto a scolo sotterraneo di tanti metri, oppure un impianto con il papiro di tanti metri.
Io: E quanto costerà?
Loro: Questo non le glielo posso dire. Glielo dirà lo studio che farà il progetto e l’impresa che lo realizzerà.
3500 euro di lavori, 1900 di progetto. Eppure le analisi delle acque parlavano chiaro: era tutto a posto. Un domani potrebbero risvegliarsi di nuovo… Ho una pratica in comune, no?

Riassumo, è chiaro. Ognuna di queste vicende è stata lunga, complessa, tanto tempo perso, una faccia sempre… serena, come dicono i politici e dentro, un vulcano in eruzione. Senza parlare dei sensi di colpa e d’inadeguatezza individuale, della paura di aver sbagliato tutto, di deturpare l’ambiente, di non curare la sicurezza, la salute e l’igiene degli operai. Mi sono lasciata quasi convincere. Roba da strizzacervelli.


Io immaginavo di essere una persona responsabile e lo ero, anche troppo secondo i miei familiari e conoscenti, rispettosa delle regole fino allo spasimo. All’inizio, anche intimorita, pronta a chinare il capo, a colpirmi il petto per ogni errore. Ma poi è arrivata l’età, o forse solo l’esperienza, e mi sono accorta che possono sbagliare anche gli altri e che l’obbedienza cieca alle leggi, alle regole, alle circolari e ai decreti, possa essere deleteria come scrive un tale filosofo francese, se è automatica, se è semplice riflesso condizionato, se impedisce di usare la propria testa. Queste cose vanno accettate se e quando ti fanno diventare una persona migliore, un cittadino migliore, soltanto allora. Interi popoli si sono adeguati al nazismo, al fascismo, allo stalinismo: la legge ha sempre ragione solo perché è la legge, anche quando è iniqua o sbagliata. In Italia, si continua ad accettare imposizioni di ogni sorta, borboniche, cattoliche, comuniste, che schiacciano l’individuo il quale dovrebbe essere, non suddito, ma elemento responsabile della comunità. A queste imposizioni si aggiunge oggi un perbenismo di comodo che non ha niente a che fare né con la moralità né con l’etica vera e finisce per distruggere i fondamenti stessi della cultura. Non di ventre molle si deve parlare, ma di teste vuote e di una paura ormai caratteriale di affrontare la vita. Che succederà domani?


Beh, sembra strano, con l’età si diventa più trasgressivi, forse perché si è fatto il giro di molte situazioni e si sceglie per se stessi, non per conciliare gli altri. Ricordo che da ragazza, durante gli studi, l’estetica vigente imponeva che il Barocco fosse anatema (troppo sfarzoso, troppo legato al potere, quasi volgare), meglio l’arte delle cattedrali; che Michelangelo fosse un genio abusivo (cosce grosse), meglio Giotto; che Rubens fosse troppo vanesio (carni rosee), meglio Van Eyck; che Puccini fosse troppo leggero, meglio Verdi. Devo dire che non ho aspettato di avere i capelli bianchi per amare il Barocco, Michelangelo, Rubens e Puccini, per ragioni che non serve spiegare qui, senza per questo smettere di amare le cattedrali, Giotto, Van Eyck e Verdi. Gli orizzonti possono, devono, allargarsi. La società aperta è appunto questa, impone a ognuno di noi di imparare a scegliere a ragion veduta e, prima ancora di riflettere. La societa’ chiusa fa esattamente il contrario, ci impedisce di essere parte in causa, ci costringe all’obbedienza cieca. E’ il terreno naturale dell’ineguaglianza e dell’iniquita’, dove proliferano i privilegi e si compiono i soprusi. Se ne può far parte per opportunismo o per conformismo, due atteggiamenti comprensibili e umani, non per questo positivi, almeno non necessariamente più positivi della libertà di pensiero e di espressione, sennonché questa costa molto di più a chi la pratica.