martedì 29 settembre 2009

Obama and Iran

Does President Obama have the money to face yet another military showdown, this time with nuclearized Iran?

domenica 27 settembre 2009

Nanà è partita


Nanà è partita


Nanà è partita, disse la signora V. alle sue conoscenti in cremeria, mentre facevano colazione. E’ partita, la Nanà, raccontò alle sue amiche dal parrucchiere, mentre le dipingevano di rosso le unghie delle mani e dei piedi. Nanà è partita, riferì al panettiere che era sorpreso di vedere lei a comprare il pane e non la sua domestica, la piccola sarda bruttina con la quale scambiava sempre qualche battuta.
E’ partita. E dov’è andata? In Sardegna forse, non ha lasciato detto. Non aveva lasciato né un biglietto né niente, la piccola domestica dall’età indefinita. La conoscevano tutti in paese, per questo notarono la sua assenza e chiesero di lei. La conoscevano anche le inquiline del condominio di fronte, più brutto certo di quello che abitava la signora V.. Spesso, mentre stendevano i panni sui balconi, schiamazzavano: Nanà! Nanà! e quando appariva con il cencio in mano, la salutavano e scherzavano con lei. Perché Nanà era sorridente e allegra. Certo quando la signora V. era sul suo terrazzo a prendere il sole in bikini, con lo specchio di carta stagnola intorno al collo per meglio riflettere i raggi del sole sulla pelle, nessuno si azzardava a schiamazzare e Nana’ non si affacciava. Restava dentro a fare il suo lavoro ed era brava, solerte, mai si prendeva un giorno di vacanza. Sempre lì, anche di domenica.
Presto le domande si fecero più pressanti sulla scomparsa di Nanà. All’inizio, la signora V. ripeteva con insistenza che Nanà era andata a trovare i suoi amici in Sardegna. Ma il suo sguardo si faceva sempre più incerto, così come la sua voce. Dopo un po’ di tempo, dovette cambiare registro: non si è più fatta viva. Non una parola. Siamo molto preoccupati. E i parenti? Nanà era orfana, questo era risaputo.
Forse sarà il caso di avvisare i carabinieri, disse un ospite invitato a cena a casa V., sorseggiando un campari. E’ passato più di un mese. I carabinieri, e cosa li diciamo dopo più di un mese? rispose il marito della signora V., ma lei lo rimbeccò subito, inviperita: Adulta e vaccinata, non siamo mica i suoi guardiani. Era molto seccata la signora V. e un piega aspra le deformava le labbra rosse. Dopotutto era lei a pagare il prezzo dell’assenza di Nanà. Era lei, ormai senza domestica, a dovere fare i lavori in casa, visto che non trovava né cercava nessuno che la potesse rimpiazzare. Nanà era lì da una vita, conosceva le sue abitudini. Ricominciare da capo con un altra, magari disonesta o sfaticata. Un problema.
Il marito della signora V. era un uomo che badava ai fatti suoi. Ma dopo tutto questo tempo, si fece scrupolo e avvisò i carabinieri. Un giovane appuntato della Stazione di comando, sardo pure lui, prese a cuore la faccenda e cominciò a indagare.
Che tipo era, la Nanà, innanzitutto… Lo chiese alla signora V. che rispose: tranquilla, molto affezionata a tutti noi. La trattavamo come una di famiglia. L’ingrata, pensò, ma non lo disse. La portavamo con noi anche a San Remo, pensi. Aveva amicizie esterne? No, era sempre in casa, qualche volta si metteva nel cortile a ciarlare con le vicine dirimpettaie, tutte donne del suo livello. Un uomo? Un uomo, la Nanà? Sta scherzando! Non l’ha mai vista? Ma come non l’ha mai vista, se la conoscono tutti in paese! Perché, cos’aveva di tanto particolare? Era brutta, disse la signora V., quasi sillabando, e la sua bocca rossa diventò piccola e tutta tonda. Scosse la lunga chioma bionda, infastidita. Era piccola, non più di un metro e quaranta, quasi una nana. Con un faccino da nana e mani e piedi da nana, un caschetto di capelli neri, certi capelli duri, quasi come crini di cavallo. Proprio brutta, quindi, ribadì l’appuntato. Ma aveva occhi buoni, aggiunse il marito della signora V., e anche un sorriso impagabile. Ma cosa dici, Vittorio? Perché? Non era gentile il sorriso della Nanà? La signora V. guardò il marito stralunata. Avete una foto, chiese il giovane carabiniere, sarebbe utile per le indagini. La signora V. cercò nel secrétaire e trovò una foto di Nanà vent’anni prima che teneva per mano un bimbo. Sembrava una bimba anche lei.
Raccontava niente della sua vita? Cosa poteva raccontarci, poveretta, la sua vita era tutta qui, in questa casa. Una vita, ce l’avrà avuta pure lei, disse il marito, quietamente. E tu cosa ne sai? Il dottor V. arrossì leggermente e si rincantucciò, com’era solito fare quando lei era arrabbiata. Lei infierì: Ne sai qualcosa tu? Allora dillo a questo giovane appuntato.
Bel ragazzo, l’appuntato. Alto, magro, capelli ricci, occhi dolci e attenti. La signora V. lo aveva squadrato subito, notando l’impeccabile divisa. Ma ora guardava il marito e lui la sorprese alzando la voce. Cosa ne posso sapere io, Virginia? L’appuntato s’irrigidì un poco, pensando Ah! Qui ci sta sotto qualcosa. Si ricredette subito di fronte alla figura elegante e bonaria del dottor V. Impossibile. Non con una donna alta un metro e quaranta e con capelli come crini di cavallo. Il dottore aggiungeva sopra pensiero: tutti hanno una vita, non crede? La moglie continuò a osservarlo con quello sguardo ironico. Poteva essere? Una volta tanto.
Ma non diceva proprio niente, questa Nanà? Sì signora, sì signora… E niente altro? Ascoltava, soprattutto. Stai dicendo che mi confidavo con la cameriera, Vittorio? scattò la signora, ma il marito alzò la mano in segno di stanchezza e questo la sorprese più che mai. Allora, per cancellare la brutta impressione, lei ebbe un sorriso di circostanza. Nanà faceva parte della famiglia. Ascoltava tutti, ascoltava i miei figli da piccoli e anche quando sono cresciuti. Conosceva ogni segreto di questa casa.
Avete guardato fra le sue cose? Magari qualche indizio. Nanà di suo non aveva niente, tranne il nostro affetto, disse la signora orgogliosa. Salirono nella mansarda dove la piccola domestica aveva la camera. Una cameretta spoglia, un letto, un comodino, una armadio, una sedia, un abbaino. Sotto il letto un valigia molto vecchia con dentro qualche immagine di santino, una sciarpa di seta rosa, e cartoline della Sardegna, tutte raffiguranti il mare. Forse qua in Piemonte le mancava il mare, disse la signora V. un po’ stupita. Forse le mancava casa sua, l’interruppe il dottore. Ma Vittorio, cosa dici? Questa era casa sua.
Bisogna scoprire dov’è andata a finire. Lei indaghi, ordinò la signora V. all’appuntato e costui si accigliò. Non per niente, era sardo e carabiniere, non prendeva ordini da nessuno fuori della gerarchia. Non era mica Nanà, lui, checché ne pensasse la signora. Indagò perché era il suo dovere e scoprì che Nanà era arrivata fino a Civitavecchia in treno. La riconobbe dalla foto uno della polizia ferroviaria che l’aveva fermata in stazione, pensando che fosse una bambina smarrita. Disse che sembrava tranquilla, portava una borsetta nera e una sporta per la spesa, nient’altro. Gli fece vedere la carta d’identità e se ne andò. Dove, non fu possibile scoprirlo e l’indagine si fermò lì per volere del maresciallo. La spesa non si giustificava. Nanà non era abbastanza importante. Probabilmente era viva e non voleva essere scoperta.
L’appuntato riferì ai signori V., un sabato mattina. Gli fu offerto il caffè su un vassoio d’argento con un centrino lavorato. Nessuno dei tre credeva alla fuga. Era successo qualcosa, di questo erano sicuri: la signora V. perché non poteva accettare che Nanà fosse partita così, l’appuntato perché era deluso che l’indagine fosse stata interrotta, il dottore per motivi che non chiarì. Disse a mezza voce: chissà quali paura si teneva dentro, povera Nanà. Paure, paure, buttò lì sua moglie. Si, paure, ma tu non sai cosa vuole dire. Cosa intendi? Gridò, lei smarrita, ma nessuno le diede ascolto. Ci sarà pure un motivo perché l’ha fatto. Fatto cosa, chiesero in coro la signora V. e l’appuntato? Niente, niente, è un po’ strano, tutto qui. Non disse mai nulla? insistette il carabiniere. No, Nanà era la discrezione personificata, riferì il marito della signora, di una compostezza assoluta. Difficilissimo capire che cosa pensasse veramente. Faceva il suo lavoro, sempre affabile, ma non diceva nulla.
Invece Nanà qualcosa aveva detto, a una delle dirimpettaie. L’appuntato lo scoprì quando cominciò a frequentare la bella ragazza napoletana che si chiamava Vincenzina. Seppe da lei che un giorno, risalendo a piedi la collina verso il paese, Nanà le aveva detto che aveva paura di essere sepolta viva. Preferiva finire in fondo al mare insieme ai pesci. E quando succederà, sicuro che non mi troverà mai nessuno perché così avrò deciso.
Da Civitavecchia partono i traghetti per la Sardegna, si ricordò allora l’appuntato. Il mistero era chiarito e poteva mettersi l’anima in pace.


Vada, 20 febbraio 2004


Questo piccolo racconto l’ho scritto in memoria di N…, a cui ho dato il nome di Nanà. Molti leggendomi sapranno esattamente di chi parlo e la ricorderanno con affetto. Nana’ è veramente esistita ed era così come la descrivo: brutta, di età indefinita e di dignità assoluta, persona civile e sempre affabile. E’ scomparsa e non si è saputo nulla della sua fine.

domenica 20 settembre 2009

1979 - 8

Jeudi 22 février (suite)

Djehanguir, par ailleurs , connait le beau-frère de Kh. e l’a mis en branle. Dj. e Karim se donnent beaucoup de mal et sont en rapport indirect avec papa mais ne peuvent le voir . Maman se fait du souci pour la santé et le moral de papa (“pourra-t-il se laver et se raser. Tu sais que pour lui la propreté corporelle est une maladie). Je reste très inquiète. [A partir de ce coup de téléphone a commencé pour nous une période de cauchemar où s’alternaient les moments d’espoir et d’optimisme et les moments de désespoir. Le jeu du chat et de la souris, les membres di Komiteh jouant le chat et nous la souris. Ils se sont moqués de notre gueule avec une facilité étonnante. Nous les avons crus parce que nous l’avons voulu et parce que nous ne pouvions faire autrement. Eux ont poursuivi leur objectif avec une constance et une cohérence, je dirais avec une subtilité surprenantes pour des iraniens. Je continue à recopier mes notes…]

Vendredi 23 février

Autres détails obtenus par Azita qui a parlé à Karim. Il lui dit que papa devrait etre relaché la semaine prochaine, qu’il n’a pas été arreté sur une accusation mais simplement prié de se rendre au Komiteh (où il se trouve encore! Pratiquement prisonnier de ces gens), pour rendre compte de ce qu’il sait sur la Cour et, dès qu’il aurait été interrogé, il serait libéré. Kh. aurait fait savoir que papa doit etre considéré comme son hote. Saideh dissuade maman de rentrer à Paris et la prie de prolonger son séjour pour bien se reposer. Maman, très soulagée, se repose toute la journée. Réussissons enfin à parler à Karim qui confirme: papa aurait été arreté vendredi dernier à cinq heures et demie (Karim était encore au travail. Il est rentré à six heures). La scène aurait eu comme témoin Monique Nassiri, la voisine mes parents, qui a dit que papa a été traité avec une extreme courtoisie. Monique a tout de suite téléphoné à Jacqueline qui a appelé Djehanguir.

Samedi 24

Pas de nouvelles sures sauf que la grande manifestation organisée par les fedayns a été interdite. Elle se déroule à l’intérieur de l’université. Le mécontentement croit de jour en jour, à cause de la faiblesse de Bazargan et de l’omniprésence des mollahs qui ont envahi toute la vie privée e publique. Les gens ralent.

Dimanche 25

Journée tranquille. Allons avec maman visiter la merveilleuse abbaye de Vezzolano, dans un cadre enchanteur. Maman est détendue et encouragée, mais elle pense tout le temps à papa (“qui, dit-elle, aurait tellement aimé cet endroit”). Tout en étant souriante, elle n’arrive pas à réprimer sa tristesse.
Taleghani se serait détaché de Kh.


Lundi 26 février

Kh. s’en va à Qom, ce qui est inquiétant [en me relisant maintenant , j’ai l’impression d’avoir été d’un aveuglement crasse et stupide. Je pensais vraiment que Kh. était une garantie pour papa? Je suppose que c’était normal]. Saideh nous téléphone le matin pour nous dire que papa serait dans la prison de Qasr (modèle, parait-il) avec Hoveyda et tous les gros bonnets du régime précédent. Il est traité avec égard, devrait voir Karim aujourd’hui. Son dossier est pret, “on attend seulement qu’un juge y jette un coup d’oeil” (textuel!) pour le libérer. Ceci devrait se passer dès avant la fin de la semaine. Maman est rassurée, elle jubile, mais Enzo et moi restons inquiets. Enzo s’inquiète surtout de ce que papa soit avec Hoveyda et les autres. Il craint qu’on finisse par faire un seul et unique procès qui serait très désavantageux pour papa et pour cause. [Quand je pense qu’en novembre à Paris, au cours d’une conversation, Djehanguir me disait “dans la pire des hypothèses ton père aura un procés qui servira à le blanchir”. Je m’étais emportée et lui avait répliqué: “ tu ne connais pas ton Histoire. Quand donc, dans des circonstances pareilles, les procès ont-ils jamais blanchi qui que ce soit. Quand il y a la volonté de condamner quelqu’un, on y arrive par n’importe quel moyen”.] Enzo insiste pour que maman obtienne que papa soit mis ailleurs, le mieux serait une clinique. Dj. , par contre, est satisfait. Cette vilaine aventure aurait servi à protéger papa d’un mauvais coup par ces petits groupes girovagues qui font la pluie et le beau temps et terrorisent tout le monde. En outre, il pense que papa a payé de la sorte le tribut au nouveau régime et qu’on lui foutra la paix après. Moi je suis inquiète et le resterai tant que papa ne sera pas sorti de prison et de l’Iran. Départ de maman.

27 février

pas de nouvelles aujourd’hui.
28 Fèvrier

Maman me téléphone à deux heures. Karim a parlé à Azita, lui a dit qu’il n’a pas encore vu papa (mauvais), qu’à cause de la grande désorganisation du Komiteh on n’a pas encore trouvé un juge (mauvais). Il ne dit rien d’une date éventuelle de libération. Par contre il confirme que les gens en ont marre et ralent sans arret. Il a assisté à un meeting à l’université où libéraux et gauchistes auraient fait l’éloge de papa. Kh. s’en devrait aller à Qom pour laisser les coudées franche à Bazargan qui en a par-dessus la tete de lui et de son Komiteh.

1er mars

Je suis incapable de lire les journaux, de travailler. Je n’arrive pas à trouver une explication à tout ce qui se passe dans le monde. Ma seule lecture: “Le premier cercle “ de Solzhenytsin. Très indiqué. Pourtant je trouve que c’est un livre plein d’espoir. Toutes mes pensées sont pour papa dès le réveil, depuis que cette horrible histoire a commencé. Aujourd’hui, après le soulagement que m’avait apporté le coup de fil de maman, j’ai été très cafardeuse. En faisant mon ménage ce matin j’ai eu, dans un instant de grande lucidité, la notion très claire de ce que ces gens vont faire de papa: comme ils savaient que papa a énormément de relations à l’étranger et que son arrestation ferait du bruit, ils nous ont désarmés avec leurs singeries, (Papa hote de Kh. Papa interpelé juste pour etre interrogé sur la Cour. Papa installé à Qasr … dans le plus grand confort…) pour que nous n’ameutions pas l’opinion publique. Ensuite ils vont prolonger sa détention sous prétexte qu’on ne trouve pas de juge, puis quand on l’aura trouvé, il dira qu’il ne peut éviter un procès et qu’au fond le procès servira à”blanchir” papa et qu’il n’a rien à craindre. On fera un procès en commun avec Hoveyda, il sera trop tard pour ameuter l’opinion. Papa sera condamné parce qu’après tout il était là, il a tout vu, il ne pouvait pas ne pas savoir, il n’a rien fait pour empecher. Comment pourra-t-il prouver le contraire? Sur la seule preuve de sa réputation? L’opinion se taira en France comme ailleurs, le pétrole et l’oubli aidant. Au mieux ce sera l’exil, au pire la prison [J’étais bien optimiste. Je n’avais pas encore sondé jusqu’è la boue les intentions de ces gens]. Je voudrais croire le contraire, mais en attendant cela fait quinze jours déjà et “on ne trouve pas de juge” et Karim n’a pas encore vu papa.

martedì 8 settembre 2009

President Chavez at the Venice festival

Is Mr. Oliver Stone convinced of doing the world a favor by making a star of President Chavez at the Venice Festival?

1979 - 7

Vendredi 16 février

On annonce l’exécution de Nassiri, Khosrowdad, du gouverneur général d’Esfahan, et de Rahimi (qui sera dépecé par la foule). Ils auraient été simplement menés sur le toit de l’école Alavieh (QG de Kh. où celui-ci se trouvait) et tués Nassiri se serait fait trainer jusqu’au toit. Commentaire d’un journaliste: “Le nouveau régime a procedé à cette exécution presque (je souligne) sommaire (le procès a été fait selon la loi islamique) pour calmer ceux qui reprochent au gouvernement sa trop grande modération. A Tabriz, toujours des troubles. Demain ce serait l’ordalie pour Kh. qui a donné l’ordre aux populations de reprendre le travail après ces deux jours fériés. (jeudi 15, anniversaire du prophète et vendredi jour de repos et de prière). Les travailleurs rechignent déjà et exigent qu’on revoie leurs conditions de travail. Les aéroports et les frontières sont toujours fermés.
Une pensée me frappent soudain et m’attriste: si papa doit s’exiler à Paris, qu’adviendra-t-il de sa belle bibliothèque? Cela doit etre une des raisons pour lesquelles il ne veut pas quitter l’Iran. )En fait cet après-midi à 5.30 papa a été arreté. Il ne reverrait jamais sa famille , sa maison, ses livres. Je continue…)
17 février
A Téhéran, le travail a repris partout à 90% sur l’ordre de Kh. Les ouvriers du pétrole aussi ont recommencé à travailler. Mais les gens demandent les réformes tout de suite. L’exode des étrangers, surtout des américains . Arrestations en masse. (Quelle ironie: j’écrivais cela avec tant de naiveté, comme si rien ne devait toucher papa).
Dimanche 18 février
Pas de communications possibile avec l’Iran à cause d’une “panne technique”. Maman n’a pas parlé à papa depuis mercredi dernier. Elle s’inquiète de ce long silence. Saideh nous dit que tous les passeports ont été retirés et que personne ne peut quitter l’Iran avant deux mois, en attendant que de nouveaux passeports sont émis. Saideh est inquiète.

Lundi 19

On annonce à la télévision que Bakhtiar n’a pas du tout été arreté mais qu’il aurait fui et qu’il se trouverait en lieu sur (dans sa tribu?). Grand mystère. On annonce aussi que d’autres militaires et civils auraient été arretés et que 4 généraux auraient été exécutés dont un “ex capo della polizia segreta”. Je fais semblant de rien mais me sent palire jusqu’à la racine des cheveux. Maman (qui est avec nous en Italie) a très bien compris. Elle me demande: “ils ont bien dit ex capo della polizia segreta. C’est qui? Nassiri a été tué. Moghaddam s’est suicidé (ce qui n’étais pas correct. Moghaddam était encore vivant), Teymour Bakhtiar est mort depuis longtemps”. Elle n’a pas l’air inquiète mais cela la travaille autant que moi. J’en parle à Enzo qui en parle à un ami bien placé qui lui conseille d’appeler un journaliste de La Stampa pour plus de détails. Le journaliste dit qu’il s’agit du chef de la SAVAK de Ghazvin, plus tard on apprendra qu’il s’agit de celui de Kermanchah. Grosse émotion. Toujours pas de communication avec l’Iran à cause d’une “panne technique”.

Mardi 20

Toujours pas de communication avec l’Iran. Situation toujours très grave. Bazargan a l’air plutot débordé par les évènements . Il ne semble pas en mesure d’éviter les fusillades ni les arrestations ordonnées pas le Komiteh de Kh. alors qu’il a vait prétendu etre en mesure de le dissoudre et de prendre la situation en main. Il semble au contraire furieux de ces représailles qui ternissent l’image du nouveau régime. Il promet la reprise des fournitures de pétrole aux pays étrangers.

Mardi 21

Après le diner, Saideh parle longuement à Enzo. Maman, dans un éclair, a l’intuition qu’is se passe quelque chose de grave. Elle se met à trembler comme une feuille et devient verte. Je suis obligée de lui administrer du cognac et du sucre et de la rassurer, tout en me sentant horriblement inquiète. Enzo la rassure aussi puis il vient dans la cuisine me dire que Saideh a appris pas un ami journaliste de France Inter que papa aurait été arreté mais qu’elle attend confirmation demain a 5h. Naturellement, je suis prise de panique, mais doit me controler à cause de maman. Je voudrais aller à Téhéran , étant en possession d’un passeport italien. Enzo pense que ce ne serai pas sage, que je ne pourrai rien faire. Toujours pas de communication.

Jeudi 22 février

Fais semblant de rien pendant toute la journée. Maman me semble rassurée par mon attitude mais tout à fait fatiguée par sa crise d’hier soir. J’attends cinq heures avec angoisse. A cinq heures rien ne se passe. Enzo me téléphone pour me dire que Saideh ne rentrera pas avant neuf heures. Je suis bien convaincue au fond de moi-meme que la nouvelle est vraie. Il n’était pas probable que papa échappe à l’attention de ces gens et passe inaperçu. A neuf heures Saideh téléphone et confirme la nouvelle. Mamn prend bien la chose et nous rapporte toutes les démarches faites par Saideh auprès des amis français de nos parents pour qu’ils interviennent (Georges Buis qui, une semaine avant le retour de Kh, suppliait maman d’obliger papa à revenir à Paris, Jean Lacouture, André Fontaine). Peu après Saideh nous rappelle pour dire qu’elle a enfin parlé à Djehanguir. Papa serait à l’école Alavieh, centre du Komiteh KH. avec tous les gros bonnets. Karim aurait écrit une lettre à Kh. pour lui rappeler tous les égards que papa a eus pour lui lors de son emprisonnement (en 1963) et l’informer que papa est malade et que sa santé exige beaucoup de soins.

Tempo di vendemmie

Per noi, è tempo di vendemmie. Premature quest'anno: i bianchi dieci giorni prima, il merlot una settimana prima, il cabernet quasi tre, chissà cosa ne sarà del sangiovese che normalmente è maturo a fine settembre, inizi ottobre. Non piove, non vuole piovere, una disperazione. Le prime raccolte si sono fatte sotto il solleone di agosto, tutti trafelati, gli avventizi senegalesi in pieno ramadan, senza poter bere o mangiare, poveracci, e devono lavorare lo stesso. Si è anche aperta la lunga stagione in cantina a vinificare, a sorvegliare la fermentazione e l'andazzo generale di ogni tino o tinella, sempre circondati dall'odore di vino, sin dalla mattina quando si entra in cantina per fare il giro di assaggi di mosto e fecce.
Bé, un motivo c'era per il mio silenzio su questo blog. Oggi c'è stato una breve finestra e ne approffito per postare il ritratto di Ilya. Leggetelo, è una storia curiosa.

Ilya


1990. L’estate dopo il crollo del muro di Berlino, una vacanza nell’Unione Sovietica che ancora non si chiamava ex-Unione Sovietica e non si chiamava ancora Russia, ed era a metà del guado, disperatamente. Per me e i ragazzi era la prima volta e quindi non eravamo in grado di notare le differenze, tranne i tassisti ladri di Mosca che tutti dicevano mafiosi. Per il resto era come da letture: le vetrine dei magazzini Gum sulla piazza del Cremlino che sembravano sgargianti da lontano e, invece da vicino, erano tutte fatte di carta crespo, i vestiti dei manichini, persino la biancheria intima e gli ombrelli. Tanta arte in quelle vetrine e niente altro. All’interno di quella splendida struttura, le file si formavano in un baleno ogni volta che qualcuno si fermava a un banco. La gente si assembrava, a furia di spintoni e di gomitate si faceva avanti per poi dileguarsi non appena si accorgeva che non c’era niente da comprare. Le camicie le buttavano giù i commessi dall’ultimo piano, urlando, per paura della folla. C’era tanta fame, anche per noi che avevamo i soldi, semplicemente perché il cibo scarseggiava. Il nostro turismo sfrenato lo facemmo a pancia vuota a Mosca, a Kiev.
Infine, prendemmo un aereo per Tiblisi in Georgia. Enzo aveva dei progetti con i georgiani e io volevo andarci perché i miei nonni si erano incontrati lì nel 1916. Arrivammo nella tarda mattinata. Nell’aeroporto non c’era nessuno ad aspettarci e noi che pensavamo a un’accoglienza VIP! Siamo in mezzo al nulla di nuovo, con la prospettiva di dover cercare il bagaglio, un albergo, magari di dover prenotare il volo di ritorno a Mosca. Un’impresa. Non un’anima che parli inglese, né poliziotti, né soldati. Alla fine usciamo dall’edificio e ci mettiamo a camminare sulla strada lì davanti, senza meta. Vediamo un bambino di sei o sette anni, straccione ma con un bel viso, e gli chiediamo “Intourist? Intourist?”. Dopo una lunga camminata ci porta davanti a una palazzina color ocra, che pare sia l’Intourist, l’unica certezza per gli stranieri in questo Paese, per quanto dubbia. Diamo una mancia al ragazzino. Dietro di noi appare una limousine Chaika, nera con i vetri oscurati che avanza piano piano. Una donna secca siede accanto all’autista, una vera befana con i tratti duri. Ci interpella e chiede chi cerchiamo. Le diciamo che il nostro comitato di accoglienza non si è presentato, al che lei ci fa segno di salire. Poldy dice dopo di aver temuto di essere sequestrato da quella donna che sembrava davvero una del KGB. Ci lascia davanti a un cancello che dà direttamente sulla pista. Lì, insieme ad altre auto, ci aspetta un’altra Chaika anni Cinquanta, subito ribattezzata “Christine” da Leopoldo. Il nostro anfitrione si frega le mani con aria inquieta, si risolleva quando ci vede arrivare. Abbracci e saluti e ci spiega che l’aereo è giunto con mezz’ora di anticipo. Stranezze di questo paese. Noi siamo ancora scossi, dopo la strizza di prima. Un signore del gruppo si avvicina e ci rivolge la parola in un inglese impeccabile, con l’accento americano e una bella voce da basso. Sembra di sentire Humphrey Bogart e questo ci rassicura non poco. Dice di chiamarsi Ilya e sale in macchina con noi. Gli altri ci accompagnano in pompa magna - una vera scorta che diverte i ragazzi e mi pare un po’ ridicola – fino a un grande edificio in cima a una collina, fuori città, anzi proprio in mezzo a un nulla che somiglia molto al deserto iraniano. Il palazzo ha un’aria strana, lussuosa e decrepita insieme. Guest-house KGB? mi chiedo. Probabile. Abbiamo a disposizione un intero appartamento pieno di fiori, tutto molto ufficiale. In mezzo all’immensa sala da pranzo, un tavolo che crolla sotto il peso del cibo, gran festa dopo Mosca e Kiev: molti antipasti alla maniera orientale, minestre, e il classico steak-frites, un po’ troppo abbrustolito, che Leopoldo divora felice.
A tavola con noi ci sono i grossi papaveri che ci hanno accolto. Il discorso porta subito sui moti indipendentisti nelle repubbliche sovietiche e viene fuori la volontà della Georgia di staccarsi senza indugio dalla Russia. E Ilya traduce… E traducendo aggiunge del suo, ne sono sicura. Trapela dalle sue parole un rifiuto definitivo del regime. Tanto gli altri non lo capiscono. Ilya vuole metterci dalla sua parte o forse mettere se stesso dalla parte nostra che veniamo dall’Occident. Vuole farci capire subito che non ha niente da spartire con l’Unione Sovietica. Ha un atteggiamento un po’ irritante anche se comprensibile, non c’è solo ospitalità orientale, anche un po’ di servilismo.
Comunque il suo inglese non fa una piega. Ilya ha una quarantina d’anni, più che meno, è pelato, piuttosto brutto. Cammina dinoccolato come un americano, parla con la bocca storta come un americano. Non sembra solo, è un americano. In tutto e per tutto. Non è un’impostura, la sua. E’ una lunga storia. Di un ragazzo sovietico cresciuto nella provincia profonda del Caucaso, è tutto dire. A mano che mano che facciamo amicizia, ci spiega che la sua perfetta conoscenza dell’Inglese viene da uno studio approfondito fin dall’adolescenza. Allora frequentava anche sale cinematografiche dove proiettavano film americani, donde la voce da Humphrey Bogart. La cosa non mi torna. Come facevano a proiettare film americani in inglese nella Tiblisi degli anni Cinquanta e Sessanta? Mi sembra una cosa strana. Dice di averne rivisto alcuni una ventina di volte e io subito a immaginarlo ragazzo, davanti a un specchio, a ripetere le battute e i gesti…
Più tardi Ilya aveva anche insegnato l’inglese in un istituto universitario e fatto doppiaggi di film americani. Ora, sì, mi torna e capisco che si sia immedesimato… E fin qui tutto bene. Il peggio viene dopo, sotto il regime di Breznev, nel colmo di una guerra fredda ormai priva di senso e, per questo, sempre più dura. Aperture fasulle verso fuori, chiusure terribili dentro. E questo giovane in cerca d’autore in una solitudine estrema, sospettato e sottilmente perseguitato. Forse la cosa, dal punto di vista del regime, poteva giustificarsi. Non era normale uno come lui, non era normale la sua venerazione dell’America. Anzi, era torbida e biasimevole. Qualcosa ci doveva essere sotto. Non importava che fosse per lui materialmente impossibile avere un qualsivoglia contatto con l’esterno, tranne quello ufficiale con stranieri di passaggio come noi. Era un traditore nell’anima che aspettava solo l’occasione buona.
Arrivò la Perestrojka. Gorbacev voleva dimostrare al mondo la sua intenzione di cambiare le cose e il mondo gli chiedeva di allentare la stretta non solo sui dissidenti, gli ebrei, ma su tutta la popolazione. Cominciarono a rilasciare passaporti. Ilya ottenne il suo e partì per gli Stati Uniti. Non so con quale soldi e con quale prospettiva. Forse qualche contatto era riuscito a farselo alla fine.
Ci racconta la sua gioia quando arrivò a New York, quando camminò per le strade, completamente libero. Dice di avere comprato per prima cosa un pretzel davanti al Rockefeller Centre perché voleva fare una cosa che facevano gli americani. Dice di aver passeggiato per giorni per saziare gli occhi e l’anima e di avere spesso attaccato bottone con i passanti, giusto per sentire la lingua. Nessuno sospettò per un istante che fosse straniero e questo lo riempì di euforia. Era a casa sua.
In qualche modo – non ci spiega nulla in proposito – riuscì ad ottenere un giro di conferenze in diverse università della East Coast, anche abbastanza prestigiose. C’era una grande curiosità in Occidente verso l’Unione Sovietica che si stava sfaldando davanti agli occhi del mondo. Pare plausibile che uno come lui fosse chiamato a raccontare le sue esperienze, ma come sia successo non lo so. Comunque si sentì arrivato. Ricordo che a Tiblisi indossava pantaloni di velluto e una giacca di tweed con toppe sui gomiti, e camicie di flanella. L’unica cravatta che gli ho visto aveva le classiche strisce. Sì, somigliava molto a un intellettuale Ivy League, tranne che per gli occhi sempre un po’ smarriti, se non inquieti.
Queste conversazioni con Ilya si svolgono soprattutto durante le nostre gite giornaliere: nel bazar così ben rifornito da sembrare irreale dopo Mosca e Kiev, nella grande piazza centrale dove si erge una bruttissima statua di Lenin tutta imbrattata di vernice rossa e parzialmente scalfita da esplosioni. Avremo l’occasione poi, durante uno dei tanti banchetti, di vedere passare i bulldozer che la sradicheranno e poi di vederla divelta in terra. Un giorno storico che fa raddoppiare i brindisi a tavola e meno male che sono di vino georgiano, non di vodka. Spesso, in quelle occasioni, siamo soli, i ragazzi e io, con Ilya. Enzo deve fare affari con i Georgiani, curiosi affari davvero in cui chiedono di pagare la costruzione di un aeroporto con un lotto di taniche di alluminio! Hanno bisogno di tutto, non solo di aeroporti, ma anche di strade e di uffici e di alberghi. Ti stordiscono di discorsi ma non hanno niente da dare in cambio, se non la simpatia, le loro splendide voci, un ottimo cognac e un vino che non regge il confronto con quelli europei. Per di più sono sull’orlo di una guerra d’indipendenza che ha tutte le premesse di una guerra civile.
Durante i banchetti che sono tanti e riuniscono tante persone - ognuna delle quale dovrà brindare a ciascuna delle altre, alle famiglie e agli antenati e ai morti e al popolo, lunga vita al popolo – io sono sempre seduta accanto a Ilya perché continui a tradurre. Mi sono messa fuori dai brindisi, essendo donna, ma Ilya beve, eccome! Allora torna a essere georgiano. Non ha più voglia di imitare gli occidentali, né di tradurre per loro. Si ritrova al caldo di una socialità rumorosa, rissosa, un po’ becera, in cui risuonano grosse risate, intorno a barzellette salaci o battute argute, inframmezzate da cori strepitosamente belli. Con la sua voce da basso, Ilya canta in modo splendido. In tutto questo, tuttavia, noto con curiosità che gli altri lo tengono in disparte. Più una sorta di lacché, a dispetto o forse a causa del suo bel inglese e del suo scimmiottare gli americani. Ogni tanto lo bersagliano, forse anche di insulti, e questo lo possiamo intuire facilmente. Ilya sorride penosamente e non traduce. I suoi occhi diventano ancora più smarriti.
In realtà è abituato, Ilya, a stare fuori. In America, dopo l’iniziale successo delle sue conferenze, ci fu una crepa nei suoi rapporti con gli americani, sottile, sottile, dapprima e poi sempre più ampia. Le diffidenze della guerra fredda erano dure a morire e qualcuno cominciò a farsi delle domande: chi era costui? Chi lo aveva inviato in America e a che fine? Nessun sovietico parlava così bene l’inglese tranne le spie del KGB. Si sapeva della rigorosa preparazione che essi ricevevano. Non poteva essere bona fide questo suo amore sviscerato dell’America, o lo poteva anche essere, ma quante volte era successo che costoro ricattassero qualcuno e lo piegassero alla loro volontà politica. Che non poteva essere cambiata dall’oggi al domani. Neanche Gorbacev era dotato di una bacchetta magica e doveva fare i conti con un enorme establishment militare, nemico per tradizione dell’America. Insomma, nel giro di pochi mesi, l’idillio finì tra Ilya e l’America. Non gli fecero niente. Lo invitarono prima a lasciare il suo posto di conferenziere senza alcuna spiegazione, ma questo lo fanno anche con i loro dirigenti d’azienda. E poi a lasciare il paese, semplicemente. I sogni di Ilya svanirono di colpo. Per un po’ girovagò per le strade di New York, senza più comprare i pretzel. Si cercò un ristorante georgiano dove ubriacarsi come si deve e in sacrosanta pace. Alla fine, dovette rendersi all’evidenza e partire.
Lasciando la Georgia per gli Stati Uniti, aveva lasciato il posto di lavoro con la speranza di non ritornare più. Ritornando dovette ricominciare da capo, sotto gli occhi sospettosi e beffardi di tutti quanti i suoi conoscenti. Era stato rifiutato dagli americani, o forse era una scusa, una copertura per motivi inconfessabili e pericolosi. Il destino di Ilya era come un cane che si morde la coda. Meno male che sapeva l’inglese, era il suo lasciapassare, ché di lasciapassare i sovietici la sapevano più lunga di chiunque. La Georgia come tutti le repubbliche sovietiche aveva bisogno dell’inglese perché aveva bisogno del mondo esterno. Ed è stato l’inglese a salvare Ilya, malgrado tutto, anche se in posizione di sudditanza. Ilya era umiliato, ma in fondo sperava, sperava veramente in un cambiamento che avrebbe reso la sua vita, pure nell’anonimato, normale, come accade in Occidente.
Chissà. Non l’abbiamo più visto né sentito. Gli ho ordinato dei libri in America e glieli ho spediti. Non ha mai risposto. A quel punto era scoppiata la guerra civile.


Valle Ceppi, novembre 1992