Questo Paese è rinchiuso in un lager burocratico. Chiunque ha a che fare con le istituzioni lo sa. Pensionati, ammalati, privati cittadini alle prese con licenze edilizie, contributive, lavorative, produttori di ogni sorta. Alle leggi, ai regolamenti, alle proroghe, deroghe e quant’altro dedica una parte del suo bel libro Luciano Violante che ne depreca la selva incontrollabile e in crescita esponenziale, anno dopo anno. Sottintesa, l’ incomprensibile lettura delle stesse da parte del comune cittadino. Asino o semplicemente disorientato, non può che essere sempre in fallo, oggetto di sanzioni, in molti casi penali. Sto parlando di violazioni burocratiche, non di reati o di delitti. Non viene riconosciuto un livello minimo di tolleranza dell’errore, né tantomeno la buona fede. Leggi e regolamenti della CEE, dello Stato nazionale, delle Regioni, tutti quanti severamente rigidi e inderogabili, atti a reprimere presupposti impulsi delinquenziali nell'uomo comune, nel suo operare sociale ed economico... Ce n’è da togliere il sonno al più incallito, più cinico, tra di noi, che viviamo e lavoriamo in Europa e in Italia.
Quarant’anni fa, quando mi sono stabilita in Italia, La CEE era ancora il Mercato Comune di pochi (5 o 6) membri, l’Italia era ancora un paese semi-agricolo, i commercianti inveivano contro il famigerato “dazio”. La tassazione era peraltro sopportabile, la classe politica che costruiva la democrazia aveva ancora il senso dello Stato piuttosto che dei propri privilegi, tranne eccezione. La politica aveva un senso. Io votai per la prima volta in occasione dell’istituzione delle Regioni in Italia. Il solo fatto di votare mi riempiva di euforia, così come l’idea delle Regioni, così come dell’Europa comunitaria, della democrazia.
Sono passati quarant’anni. L’Europa oggi mi sembra il caposaldo di una burocrazia super pagata, lontana dalla realtà territoriale dei suoi (26? ho perso il conto) paesi membri, che sforna legislazione secondo la velleità dei singoli e secondo una malintesa correttezza politica, assai lontana dalle esigenze della popolazione che ne subisce l’autorità, assai lontana anche dalla cultura della responsabilità che nessuno rifiuterebbe se solo fosse comprensibile. Lo Stato, membro della Comunità, ne rispecchia i difetti e li amplifica. Le Regioni poi, molto gelose della propria autonomia, li amplificano ancora, dimostrando solo capacità retorica, pochissima capacità di gestione. Un esempio fra tanti: all’Aquila, dove ha tutta la competenza, che cosa ha fatto la Regione per la ricostruzione in questo anno del dopo terremoto? Da molto tempo, sento dire che bisogna sopprimere le Province perché bastano e avanzano le Regioni. In anni di lavoro nell’agricoltura, ho trovato molta più attenzione sul territorio da parte della mia Provincia, collaborazione e azione concreta. Rimpiango il mio voto di gioventù per l’istituzione delle Regioni, fonte oggi di grande confusione, di sprechi enormi (le "ambasciate" regionali presso la CEE oppure a Roma ne sono un esempio curioso e inspiegabile) che sono necessaria premessa di corruzione.
Lo Stato poi e la politica con la P sempre più minuscola, stanno dando da anni uno spettacolo pietoso. Di un ridicolo che non fa ridere, in questi ultimi mesi. Mancanza di progetto, mancanza di azione, in ogni possibile campo, chiacchiere senza esito e cattivi esempi, tanti. Chiunque governi... Molti privilegi, estesi a un’ampia clientela e a uno spesso strato garantito della società. Lo Stato somiglia sempre più a un acquario chiuso, le cui spese immense sono a carico del cittadino.
Quanto può durare ancora?
Nessun commento:
Posta un commento