lunedì 31 maggio 2010

Alice nel Paese delle Corporazioni


 Mi sento come Alice, stupefatta da ciò che vedo e da ciò che sento in questi giorni di approvazione del decreto governativo sulla manovra economica.  Buono o cattivo che sia, lo sforzo di affrontare la situazione e di non schivare l’impopolarità c’è e forse qualcosa di più.  A sentirsi parte in causa  nel risanamento del Paese c’è solo una metà del Paese, quella che lavora senza tante storie, quella che produce ricchezza per davvero, per quanto ci riesca nella congiuntura attuale e che, tuttavia, deve sempre rendere contro a qualcuno.  Dall’altra parte ci stanno le corporazioni, molto potenti.   Che cosa sono le corporazioni?  Cerchiamo di darne una definizione:  un insieme di tribù, con le loro logiche ferree, i loro interessi ferrei,  l’incapacità di uscirne e di affrontare il nuovo che è rischio per eccellenza.  Sono tanti ad appartenervi, collocandosi in vaste aree privilegiate e garantite: Regioni, comuni, USL, sindacati, la scuola, l’Alitalia, le Ferrovie, i trasporti pubblici e, in generale, l’impiego pubblico,  le numerose cooperative e i consulenti che  vi sono collegati e non dimentichiamo la magistratura che oggi minaccia lo sciopero, uno scandalo (come se lo minacciasse il Presidente Napolitano, altro caposaldo istituzionale, peraltro presidente del CSM) e non dimentichiamo neppure i giornali, ampiamente foraggiati dallo Stato.  Sono seduti su una montagna di certezze che non vogliono vedere minacciate a nessun costo.  Non sono disposti a cedere una briciola al bene comune. Prevalgono gli interessi particolari contro l’interesse generale, senza una vera giustificazione.  I membri di queste tribù non contribuiscono in particolar modo alla ricchezza e neanche al servizio della nazione, sono troppo occupati nelle loro beghe personali e tribali.  La loro unicità sta nel fatto di essere tanti e protetti per diritto, dal momento che costituiscono il grande vivaio elettorale del mondo della politica. 
Dove sta la solidarietà e l’equità a cui si richiama la CGIL?  Non è più il Paese di Bengodi, questo.  Il tappetto è troppo striminzito.  Tira e tira, qualcuno resta scoperto e sono sempre gli stessi.

martedì 18 maggio 2010

i post di oggi

In "lectures - fr" : Faut.il aimer Céline?
In "racconti" : Tariq Ali Khan - 4. Volete cambiare la fine? I suggerimenti saranno ben accolti e anche messi alla prova. Alla fine il racconto sarà pubblicato per intero

Tariq Ali Khan - 4

Era un altro uomo. Se avesse voluto guardarsi allo specchio, si sarebbe stupito di vedere una faccia sconosciuta, magra, indurita dal sole e dalle intemperie, le occhiaie profonde, i capelli nascosti dal largo turbante nero che aveva rimpiazzato la ciambella color terra indossata tradizionalmente dai pashtun, la barba, infine, cresciuta piuttosto rada e incolta, non molto pulita. Tranne le abluzioni rituali, seppure perfettamente eseguite ogni giorno, non c’era modo di lavarsi a fondo. Tariq non se ne curava da tempo. Si era come dimenticato di se stesso, del ragazzo che era stato, dei suoi sogni italiani e non lasciava riemergere alcuna immagine del passato. Fu la paura a ricordargli che esisteva, a ricordargli la sua realtà in carne e in ossa che, da un giorno all’altro, rischiava di andare a pezzi. Non capiva la morte, non riusciva neanche a immaginarla. Allora si chiedeva quale era preferibile: quella di Ashraf, di Hamzah, di Ebadullah? La cintura, dicevano in molti ormai. Era praticata con ottimi risultati dai fratelli iracheni, consentiva di arrivare sul bersaglio senza farsi notare. Un poveraccio somiglia a mille altri poveracci e passa inosservato semplicemente perché nessuno lo guarda. E, forse sì, quella morte sarebbe stata preferibile perché istantanea.

La neve era scomparsa da tempo. Era passata la primavera, quasi inosservata ed era arrivato il gran caldo, tempo di guerra per eccellenza. Tariq Ali dovette fare fagotto. Lo rimandavano indietro, nello Helmand, e si doveva stabilire a Garmsir, cittadina nella parte meridionale del distretto. L’offensiva comune degli americani e degli inglesi aveva raggiunto l’obiettivo e, dopo vere battaglie, con i nemici che si fronteggiavano a suon di artiglieria, gli stranieri erano ormai riusciti a fare sloggiare gli insorti. Costoro avevano girato i tacchi. I contadini erano tornati con le loro famiglie, avevano ripreso i lavori nei campi, riparavano tetti e muretti di cinta sbrecciati dalle sparatorie. Si lasciavano avvicinare dalle truppe inglesi rimaste, e ascoltavano le offerte di danni di guerra, di aiuto per il ripristino del sistema d’irrigazione che prendeva l’acqua dal vicino fiume. Una tregua insperata di cui approfittavano gli insorti per mimetizzarsi definitivamente con la popolazione. Tariq Ali, con loro.

Lo avevano indirizzato al bazar di Darweshan che aveva ripreso l’attività a pieno ritmo. Passava molto tempo seduto sulla soglia della bottega di un barbiere, bevendo infinite tazze di tè nell’attesa che gli fossero riferite le notizie che portavano i clienti e soprattutto in attesa degli ordini dall’alto. La notte, era ospitato nell’unica stanza del barbiere e lì stava anche il fratello, privo di gambe. Gli erano saltate via durante la battaglia di Helmand, mentre stava parlando al suo capo, a riparo di un muretto. Un drone era passato sopra di loro, ne aveva identificato l’esatta posizione e li aveva colpiti. Il capo era morto e lui era rimasto gravemente menomato. I suoi compagni lo avevano caricato su un pick-up, nascondendolo sotto le balle di mais per la prossima semina. Lo avevano portato all’ospedale degli italiani a Lashkar Gah, dove nessuno faceva domande. Era tornato a casa con due moncherini al posto delle gambe. Non poteva più chinarsi verso la Mecca, ma era ancora vivo e ora sedeva giorno dopo giorno su uno stuoino, a rimpiangere il suo passato di guerriero. Era lui il vero referente di Tariq, gli raccontava come erano andate le cose, gli spiegava come dovevano andare.

Cominciarono a uscire, a farsi vedere insieme. Era necessario per meglio fondersi nel paesaggio e non dare nell’occhio. Tariq spingeva la sedia rotelle dell’amico, costruita con assi di legno e ruote di bicicletta. Facevano un breve tratto fino al campetto del barbiere e Tariq sarchiava, zappava e ascoltava i discorsi di Sardar, mormorati con voce cupa. Gli spiegava come le nuove leve di combattenti insorti avevano riportato in primo piano la guerra santa. Pashtun sunniti contro gli sciiti oltre il confine iraniano, kashimiri mussulmani contro indù, uzbechi mussulmani contro la Russia non più comunista ma prepotente lo stesso, pronta a soffocare le istanze religiose che potavano dilagare nella regione, pachistani mussulmani contro americani non solo cristiani ma anche egemoni, con i loro soldi e la loro pretesa di dettare legge al governo di Rawalpindi. Il segno vero dell’insorgenza era l’Islam e caratterizzava, più dell’oppio, la lotta raso terra, fuori dai giochi d’interesse dei grandi capi. Tariq riusciva a focalizzare le cose meglio che in passato. Sapeva che Sardar non stava fornendo la sua personale opinione, gli descriveva un nuovo aspetto della situazione. Ciò provocava in lui l’amaro rimpianto di aver rinunciato così a lungo ai dettami sacri dell’Islam, di aver desiderato con passione le ricchezze dell’Occidente, le carni impudiche delle donne sulle spiagge italiane, una libertà che gli aveva fatto perdere il senso della propria dignità. Voleva pagare l’errore, meglio ancora con la morte.

Era chiaro ormai che gli insorti non potevano confrontare i nemici in battaglia. Dovevano scoraggiarli con azioni mirate e numerose, togliendoli il sonno la notte, tenendoli sempre in stato d’allarme. Dicevano che gli stranieri erano i cani e loro le pulci, innumerevoli, in grado di uccidere il loro ospite. Questa nuova strategia del mordi e fuggi era cominciata in piena estate, e impiegava altri pachistani, più spendibili forse agli occhi della popolazione.

L’arma migliore era quella che gli stranieri chiamavano ieds. Erano ordigni improvvisati che al posto dell’esplosivo, usavano prodotti agricoli, perlopiù concimi chimici facilmente reperibili e gasolio, componenti rudimentali che si potevano comprare in ferramenta, spago, nastro adesivo, filo di alluminio, pile comunissime. C’era anche un’imbottitura di chiodi e bulloni che, nell’esplosione, sarebbero schizzati ogni dove, per recare il maggior danno possibile. Il marchingegno era installato nei bossoli di artiglieria abbandonati sui terreni di battaglia o, alla peggio, dentro una semplice scatola di cartone. Era poi nascosto sotto il ciglio di una delle tante stradine sterrate che correvano tra il fitto reticolo dei fossi d’irrigazione e congiungevano un villaggio all’altro. I grossi mezzi blindati della Coalizione erano costretti a percorrerle a passo d’uomo e non potevano evitare di schiacciare con le ruote quelle mine caserecce. Adesso correva voce che i nemici avessero congegnato un nuovo, indistruttibile veicolo antimina e qualcuno li aveva pure avvistati, ma solo sulle strade importanti. A Garmsir, nella zona verde, aprirne di nuove tra muretti e fossati era impossibile. Gli stranieri erano intrappolati, il loro progresso era rallentato dalla ricerca delle mine. Talvolta ci mettevano una giornata intera per bonificare una strada, e appena credevano di avere superato l’ostacolo, s’imbattevano in altri ordigni micidiali che gli insorti piazzavano avanti avanti a loro. Morivano come mosche, dentro i loro mezzi squarciati, o fuori quando erano costretti ad andare a piedi. Avevano vinto la battaglia dei due anni precedenti, non avevano vinto la guerra, perché la vera guerra era adesso.
Tariq e Sardar sapevano di essere anelli di una lunga catena invisibile. Nella catapecchia dentro l’orto del barbiere fabbricavano i loro strumenti di morte, e nel cuore della notte Tariq andava, vanga in mano, a posizionarli in punti prescelti. Di giorno, volavano gli elicotteri e viaggiavano i blindati, la campagna brulicava di militari. E anche la notte poteva essere pericolosa. Gli successe, così, di imbattersi in una pattuglia alla ricerca dei morti del giorno prima, o in un gruppo di artificieri che a tarda ora non aveva ancora finito il lavoro. Due volte, dovette mollare lì i suoi pacchetti sotto un cespuglio e darsela a gambe. In entrambi i casi, ebbe fortuna. All’alba sentì lo stesso la deflagrazione, segno che qualcuno c’era passato sopra.

I consigli di Hamza erano serviti, niente fili elettrici stesi, niente telefonini: il detonatore era piazzato sotto placche di pressione, e bastava il peso del veicolo, o anche di un uomo a piedi a innescarlo. Tariq non si attardava. Intorno a una zona minata di fresco, c’era solitudine e silenzio. Nessuno si faceva vedere, il passaparola funzionava. I militari occupanti lo sapevano, si spaventavano ad attraversare luoghi completamente deserti. Rastrellavano le case e gli orti nascosti dietro i muretti di terra battuta. Erano venuti anche da loro una sera sull’imbrunire. Tariq e Sardar erano seduti fuori a fumarsi una pipa di oppio. Non c’era niente da trovare, tranne arnesi da lavoro, taniche vuote, qualche cesta di cetrioli. Se n’erano andati, dicendo che la stradina sarebbe stata chiusa l’indomani. Di lì non sarebbe più passato nessuno. Tariq decise un’ultima sortita. L’ordigno era già pronto per ogni evenienza, sepolto in una fila di pomodori. Se chiudevano la strada, di sicuro voleva dire che l’avrebbero usata e non poteva lasciar passare l’occasione.

L’orto del barbiere non era lontano dal ponte sul canale principale ricostruito da poco dagli americani. Quest’ultimi, insieme ai soldati inglesi, avevano svolto anche un grosso lavoro di ripristino di tutto il sistema d’irrigazione realizzato negli anni Cinquanta da una ditta USA, e poi caduta in degrado. L’ideale sarebbe stato attaccare il ponte stesso, dove passavano spesso i mezzi militari, ma non era realistico giacché era presidiato. Per di più serviva anche alla popolazione locale che l’insorgenza non voleva mettersi contro. Tariq scelse un fosso di scolo abbastanza aperto, con una fila di palme a venti metri, una vegetazione più fitta e disordinata appena in paese, che poi diradava prima che le acque si ricongiungessero al sistema principale. C’era un punto preciso che Tariq voleva evitare dove il fosso si slabbrava un poco e correva lungo il viottolo. Lì, le donne andavano a prendere l’acqua e a lavare i panni, e Tariq non voleva morti innocenti sulla coscienza. Più in là, la strada in uscita si faceva un po’ più ampia ma era sconnessa e piena di pietrisco. Aveva visto molte volte i veicoli di passaggio rallentare in quel punto. Le sponde del canale erano friabili e si adagiavano con un pendio leggero nell’acqua. Con poco sforzo avrebbe potuto piazzare il suo pacco rinvolto nella carta marrone.
Quella sera riportò Sardar a casa e tornò indietro che era già buio. Stesse in attesa, fumando, e riflettendo. Finora, era andata bene, aveva raggiunto gli obiettivi e non era morto. Si sentiva più sicuro, anche se il suo cuore pareva un sasso ormai. I soli pensieri che gli frullavano in testa come un ritornello impazzito erano che non voleva morire, non voleva tradire, non voleva uccidere.

Poco prima dell’alba, rinvolto che ebbe la sua scatola in una pezza legata con quattro nodi, uscì dal recinto dell’orto e s’incamminò con la vanga a spalla. Costeggiò la fila di palmizzi poi, tagliando di sbieco, si addentrò nella parte più coperta lungo il canale dove non filtrava alcuna luce. Tariq giunse laddove la sponda era più dolce, scavò velocemente sotto il ciglio e piazzò la mina direttamente sotto il pietrisco, ricoprì il tutto con la terra smossa. Quando tornò sulla strada, gettò un’occhiata all’indietro, vide che non c’era niente da vedere. Procedette a passo spedito. Il sole cominciava a salire e la giornata prometteva di essere rovente. Udì il rombo dei veicoli militari sul ponte. Una pattuglia avanzava in avanscoperta e come Tariq fu avvistato dai soldati, scoppiarono grida di “yallah!Yallah”. Fece dietrofront, il cuore in subbuglio e fu allora che la vide. La bambina che spingeva una carriola con una tanica per l’acqua sopra. Non più di otto anni, un vestitino di cotone scuro che le scopriva le ginocchia. Era quasi all’altezza dello slargo dove le donne abitualmente venivano a fare il bucato. Faticava a guidare la carriola, doveva spingere forte. Tariq, spaventato, prese a correre, urlando “yallah!yallah anche lui, facendo grandi segni con le braccia per farla allontanare. Lei alzò la testa,lo guardò smarrita, rallentò, non si fermò subito. Tariq proseguì la sua corsa impazzita, dentro di lui un unico grido: No! Non lei, non lei!! Gli pareva di volare sul pietrisco. Si accorse all’ultimo minuto di esserci sopra, alla mina. Solo io, pensò. Nient’altro.

Peut-on aimer Céline?

Peut-on aimer Céline?
Sa hargne, son langage vulgaire, ses récriminations continuelles…. Ce n’est pas vraiment nécessaire. Au début, il faut simplement baisser ses gardes, laisser de coté les préjugés et lire. Très vite, on est pris au piège, on n’a meme pas besoin d’essayer de comprendre, on comprend. Le personnage se pose en transparence derrière le fatras des mots. Il est comme un enfant qui n’a pas grandi et qui ne devient pas plus sage avec l’expérience. il est dérouté par le spectacle du monde. Il n’a pas appris le compromis et les bonnes manières, il commet des betises, se révolte contre les injustices, l’hypocrisie, l’indifférence. ce qui lui fait dire ce qu’il pense parce que c’est ce qu’il voit. Avec ses yeux d’enfants et bientot ses désillusions d’adulte, avec la brutalité de langage que mérite la brutalité des situations. Et le fatras des mots représente si bien et avec tant de force ces situations qu’il devient tactile et sensoriel et Céline, enfant, adulte, n’a pas peur de s’en servir. Il n’en fait pas un art, mais une arme de défense. Les médisances de quartiers, les gifles et les menaces des parents, les violences des individus et de la guerre, il n’y a pas de hiérarchie des maux à ses yeux, ou de discrimination, ni de limite à son indignation. Il s’insurge contre les blessures qu’on lui inflige, mais n’y a-t-il pas dans son attitude l’instinct de reconnaitre la faiblesse, la subordination des désarmés face aux velléités des puissants e des bien pourvus? Et de ne pas les accepter ou de les accepter comme entièrement inévitables et odieuses , ce qui revient au meme.
Céline grandit comme une sorte de paria, il le restera jusqu’au bout,. Cela devient meme une sorte de cuirasse dans laquelle il conserve jusqu’à la fin l’innocence et la liberté,. Cela lui permet de dire ce que personne n’ose avec des mots que chacun pense mais que personne n’ose.
Oui, on peut, on doit aimer Céline.

Lecture en cours, quarante ans après la première fois: Mort à crédit. Je vais à rebours, Rigodon, Nord, D’un chateau l’autre et ce n’est pas fini. J’y reviendrai, j’y suis déjà revenue, très longtemps après. Ce ne sont pas des livres que l’on pose et qu'on ouble pour toujours, une fois qu’on les a lus.

venerdì 14 maggio 2010

Terra di Rapina

I politici si consolano, dicendo che gli eventi emersi nelle ultime settimane non sono una novella Tangentopoli, perché le persone coinvolte hanno agito unicamente nell’interesse proprio. Come se fosse meglio e forse per loro lo è. Bisogna dire, tuttavia, che Tangentopoli qualche motivo politico ce l’aveva (magra consolazione, è vero). In realtà, gli eventi a cui assistiamo oggi, che sono tangenti comunque al mondo politico, che lo voglia o no, sono la prima avvisaglia della grande palude culturale che sta a poco a poco ricoprendo il Paese. Il senso di avidità, d’impunità, la scaltrezza dei protagonisti dà un’immagine nitida ormai di quanto l’Italia sia diventata terra di rapina. Ma per i rapinatori, ci vogliono i rapinati e siamo noi, il popolo bue… che paga. Perché tutti questi milioni e miliardi euro non sono nati dal nulla, da qualche tasca saranno pure usciti.
Quanto tempo può ancora durare?

giovedì 13 maggio 2010

Di tutto un po'

Non sono in grado di maneggiare a dovere il sistema complesso di blogspot e non posso mettere su un’unica pagina i post di una giornata. Quelli di oggi su:
Je ne suis pas en mesure de gérer les complexités de blogspot et de mettre sur une seule page les post de la même journée. Ceux d’aujourd’hui dans la rubrique:
I am not able to deal with the complexities of blogspot and post different subjects on the daily page. Please go to:
Lectures: Une opinion sur le beau livre de Jean-Louis Ezine: “les Taiseux”.
Domande: Notizie dall'Iran
Questions - fr: Nouvelles de l'Iran
Questions: News from Iran

Les taiseux

Les Taiseux de Jean-Louis Ezine (Nrf – Gallimard)
L’un des plus beaux livres en langue française que j’ai lu ces derniers temps. Ezine l’appelle un “récit” et je crois comprendre qu’il est en grande partie autobiographique. Il représente pour cela un intérêt particulier. Poétique , d’une écriture élégante, d’un contenu fort et émouvant: l’histoire d’une identité perdue et retrouvée sur la trace de toute une vie. Une histoire aventureuse, ce qui ne gâche rien , en tout cas pour le lecteur d’aujourd’hui, habitué aux rebondissements de toute sorte. Chapeau, Monsieur Ezine.

Nouvelles de l'Iran

La Bbc (www. news.bbc.co.uk/2/hi/south_asia) rend compte du sort des réfugiés afghans executés en Iran. De 4 a 5000 réfugiés ont été arrêtés. Des centaines d’entre eux sont en attente d’être executés. L’Iran nie.
Roxane Sabéri, dans un article du Washington Post d’hier, 12 mai, rapporte que le régime iranien a exécuté 5 activistes politiques curdes, après procès sommaires et tortures. www.washingtonpost.com)
Curdes, afghans, qu’importe, n’est-ce pas?

News from Iran

The Bbc (www. news.bbc.co.uk/2/hi/south_asia) reports on the Afghan refugees executed in Iran. 4 to 5 thousand have been arrested and hundreds are awaiting execution.
Roxane Saberi, in an article in the Washington Post, yesterday 12 May, reports that the Iranian regime 5 Kurdish political activists, after summary trials and torture.
Kurds, Afghans, who cares?

Notizie dall'Iran

La Bbc (www. news.bbc.co.uk/2/hi/south_asia) riferisce sulla sorte dei rifugiati afgani giustiziati in Iran. Tra 4000 e 5000 afgani sono stati arrestati dalle autorità iraniane e centinaia di loro aspettano nel braccio della morte. Teheran nega.
Intanto Roxane Saberi, in un articolo sul Wahington Post di ieri, 12 maggio, riferisce che il regime iraniano ha giustiziato 5 attivisti politici curdi, dopo processi sommari e torture. (www.washingtonpost.com).
Curdi, afgani, importa a qualcuno?

domenica 9 maggio 2010

Federalismo

Il sud Europa è all’Europa ciò che il sud Italia è all’Italia. Il federalismo, se ci deve essere in Europa come in Italia, deve funzionare in entrambi i sensi, altrimenti non regge. Non si può chiedere al nord Europa di mettersi in ballo in tutto e per tutto, senza che il sud Europa faccia uno sforzo serio di rimettere ordine in casa propria e impari a far funzionare le sue cose. Così anche il sud Italia nei confronti del nord. Se questa reciprocità non si realizza concretamente, il federalismo non funziona, diventa un meccanismo perverso, per non dire iniquo. Non per niente, i tedeschi sono molto inquieti stasera, perché gli strumenti salva-euro che il vertice di Bruxelles sta predisponendo hanno per la prima volta una forte valenza politica. E hanno ragione: pure essendo i più virtuosi, sono sulla linea di fuoco, più di chiunque altro, senza alcuna contropartita. Ma quale è l’alternativa? La disgregazione che, in Italia, significa separatismo. Non uno spauracchio, una minaccia reale.

martedì 4 maggio 2010

Tariq Ali Khan - 3

Tariq Ali ascoltava. La tensione era forte. Sulle strade l’oppio e le armi viaggiavano con più difficoltà e se la situazione peggiorava, l’insorgenza correva il rischio di trovarsi in brutte acque finanziarie. Erano scontenti tutti, i capi politici insediati a Quetta, i potenti trasportatori che operavano su una rete ramificata fino in Asia Centrale, in Turchia, sul Golfo, fino in India e in Europa, e anche i contadini che con l’oppio vivevano. Si diceva che gli stranieri avrebbero bombardato i campi pur di togliersi quell’affanno della droga che rovinava i loro paesi. Fu allora, nelle sue visite ai bazar, che Tariq, mescolato alla folla di nullatenenti e disoccupati che da sempre popolavano strade e mercati come questi, capì quanto fosse ampio il supporto della gente agli insorti. Come poteva l’esercito straniero venirne a capo? Sarebbe bastata la potenza, la ferocia o la superficiale bonarietà? E tuttavia, si rese conto che gli umori nella galassia variegata dei capi erano mutevoli, e continue le lotte interne tra diverse fazioni, seppure sotto il cappello della grande Jirga. Il controllo del territorio era ormai assicurato, ma la diversità d’intenti rendeva le cose fragili. La religione stava diventando un pretesto, l’autonomia tribale contava sempre meno, e di più, molto di più contava una pragmatica gestione degli interessi e degli intrecci politici. E lui, umile messaggero, spia, fattorino, stava attento a non fare passi falsi, a non dare la sua opinione, a non dire una parola in più.

A raso terra, anche nel suo campo di appartenenza come in tutti gli altri della stessa dimensione, il dilemma c’era. Chi seguire a questo punto? Spesso incomprensibili gli ordini delle sfere più alte. Ubbidire a quelle strategie di più ampio respiro o farsi carico di azioni che assicuravano l’autonomia dei capi locali e dei loro consigli in miniatura, azioni che avrebbero potuto metterli in prima fila nella ressa d’insorgenti che, di qua e di là al confine, cercavano di dettare la politica internazionale e rivendicavano l’attenzione delle grandi televisioni? Gli anziani restavano legati a doppio filo al Corano. Molti di loro si rifacevano alle proprie esperienze sul campo, negli anni di lotta contro i sovietici e contro i valletti comunisti da loro messi al potere. Erano veterani di una guerra diversa, paziente e di lunga durata, fatta di attese e di agguati cruenti in cui spesso erano mozzate le teste dei soldati nemici, per poi servire da preda nelle sfrenate partite di buzkashi.

In tempi più recenti, dopo la guerra fratricida tra fazioni della stessa fede, ne era emersa una vittoriosa, prendendosi il governo dell’intero Paese. Poi era stata cacciata dalla potente Coalizione, nella scia gli attacchi all’America, ma non era sparita. Era ormai troppo radicata nelle popolazioni e si portava dietro l’adesione dei combattenti di altre guerre. Da anni il mosaico dell’insorgenza si arricchiva di molti nuovi elementi, arabi, turchi, ceceni, kashmiri, fedeli alla bandiera dell’Islam e della rivolta, ma ognuno con propria fisionomia e rivendicazioni nazionali. Forza e debolezza insieme di uno Stato insediatosi nel cuore degli Stati della regione, con la testa dell’idra, dove i leader diventavano sempre più occupati nella gestione del proprio potere. La vera forza vitale erano i giovani, capi e soldati, e avevano fretta non di governare, ma di combattere.

I compagni di Tariq erano uzbeki, yemeniti, egiziani, persino un anglo-africano, immigrati per convinzione o per necessità. I pashtun erano perlopiù ragazzi cresciuti fuori da ogni regola tranne la sopravvivenza, nei campi profughi sul confine pachistano. Avevano scoperto tutti i mezzi per difendersi, riempirsi le tasche di denaro, barattare notizie e strappare informazioni. Maneggiavano armi ed esplosivi con disinvoltura. Premevano per entrare in azione, stanchi di dover fare i contadini di giorno come copertura, nell’attesa che accadesse qualcosa. Pensavano di conoscere meglio la situazione sul terreno, gli spostamenti di truppe, i pericoli incombenti. E sui vecchi avevano davvero qualche vantaggio. Di oppio erano sempre provvisti e, nei vicoli di Quetta, esso era la merce di scambio per acquistare portatili e telefonini ultimo grido con videocamere, relative chiavette per collegarsi a internet e altre, minuscole e potentissime, da portarsi appresso, nelle tasche profonde, per archiviare documenti e foto. Avendo imparato subito a leggere i siti dell’insorgenza, a mandare messaggi e-mail, inviare e ricevere sms, erano molto informati. Per vie misteriose riuscivano a impadronirsi di ogni strumento nuovo con disinvoltura e intasavano l’etere con un chiacchiericcio continuo, in cui ogni parola aveva un significato diverso, ogni nome ne copriva un altro. Senza saperlo, si affrancavano dalle regole ferree della vita tribale e anche dalla tutela religiosa. Era a loro che si rivolgeva la nuova generazione di capi che, per ora, si era solo affiancata a quelle vecchie e manovrava per prenderne il posto.

Tariq era l’ultimo arrivato nel campo e il meno preparato. Intanto, mentre imparava, vedeva scomparire l’uno dopo l’altro quegli addestrati prima di lui: Idris, il nigeriano che si era dato il nome di Abu Taleb, inviato a compiere un attentato contro un aereo di linea in Europa, arrestato, e forse era il più fortunato; Ashraf, figlio di ricchi egiziani che aveva scelto la rivolta ed era morto su una strada di Herat, facendosi saltare in una toyota al passaggio di un convoglio italiano; il giovanissimo Hamza, a lui il più caro - era yemenita e gli aveva insegnato tutto sulle bombe - ucciso dalla raffica di mitra di un soldato straniero mentre correva diritto sul suo vecchio scooter-bomba verso un posto di blocco. Ebadullah, l’afghano dagli occhi tristi che, dopo essersi incatenato addosso una cintura di esplosivi, se la fece esplodere durante un rito sciita in una moschea di Zahedan. Tutti sapevano di questi fatti ma li tacevano per proteggersi da se stessi. Tariq, come gli altri, era triste e si poneva delle domande. Non conosceva le risposte e neppure era sicuro di volerle conoscere. Sapeva solo che si avvicinava il momento. A mano a mano che diventava più bravo, cresceva la sua paura. E lui la frenava, la ricacciava indietro e si attaccava alle sue convinzioni degli ultimi mesi. Da quel cerchio infernale che gli si era stretto intorno non poteva uscire. Non c’era modo. E quando qualcuno dei suoi amici gli sussurrava “hai paura?”, lui rispondeva freddamente “si, ho paura, fa parte del nostro lavoro”. Era un modo per sdrammatizzare.