lunedì 6 dicembre 2010

Un po’ di relax


Giorni frenetici di lavoro, viaggi, incontri.  Meno male che ci sono stati due film abbastanza eccezionali a trasformare serate che, normalmente, si chiudono alle nove con un "io vado su a leggere", perché non c'è niente da vedere.
Il primo, chissà perché molto criticato ovunque dagli esperti del cinema,  è "The Concert" di Mihaileanu.  Un ex-direttore d'orchestra, una vera star del Bolshoi, cacciato trent’anni prima  per aver fatto suonare degli ebrei, è decaduto al rango di semplice inserviente nel grande teatro.   Viene a sapere di un concerto che deve tenersi al Chatelet di Parigi.  Convinto dell'incapacità dell'orchestra ufficiale, compie un atto di pirateria appropriandosi del fax d'invito e dell'occasione.  Raduna i suoi ex musicisti ebrei, tutti più o meno sbandati, fornisce loro documenti di espatrio fasulli e in qualche modo riesce a farli giungere a Parigi, dove ha convinto il teatro del Chatelet che sono loro la vera orchestra del Bolshoi.  Non racconto il resto, per non guastare la festa a chi non lo ha ancora visto.  Una trama implausibile, zeppa di gag e di personaggi scatenati,  un senso di vitalità debordante, grazie anche al grandioso Concerto n.35 di Tchaikovsky:   Mihaleanu riesce a farci passare due ore di puro piacere e anche di emozione.  Che altro si può chiedere a un fim?
L'altro film è "Einstein and Eddington" di Philip Martin.  Di un genere tutto diverso.  Appassionante racconto di come la teoria della relatività ha trovato la sua dimostrazione grazie a uno scienziato inglese, Eddington, durante la prima guerra mondiale.  Il rapporto tra due uomini molto diversi,  intralciati da un conflitto che li obbliga a essere nemici, seppure accomunati dalla scienza e dalla intima opposizione alla guerra, è descritto con sobrietà e risulta per questo avvincente.   La dimostrazione  fa passare un brivido nella schiena.   Gli asini come me che non hanno mai capito la teoria della relatività  qui possono cominciare a capire. 


domenica 28 novembre 2010

Propensione al caos

 Rappresentazione grafica del caos: si chiama “attrattore strano”.



Non sono né scandalizzata né entusiasta per le rivelazioni che Julian Assange manda a raffica sul web.  Queste sono la materia viva di cui è fatta la Storia da quando esiste:  guerre, torture, dominazione, sfruttamento.   Un tessuto di tragedie che non si smentisce mai.  Niente di nuovo sotto il sole e non c’è bisogno di WikiL. per essere contrari.

sabato 20 novembre 2010

Il calvario di dell’Utri


E’ già cominciato da tempo il calvario di Marcello dell’Utri , ma chissà quando finisce.  Spero per i suoi giudici, e anche per gli italiani, che sappiano quello che fanno.  Sarebbe una vergogna altrimenti, una delle tante:  Tortora,  Carnevale, Andreotti, Calogero Mannino… Con relativi pentiti, Melluso, di Salvo, di Carlo, Spatuzza e quant’altri, maestri di opportunismo, che non si fanno certo scrupolo di rovinare qualcuno, pur di ottenere ciò che vogliono.  Salvo ritrattare anni dopo. Anni e anni di attesa prima che qualcuno si prenda la briga di raddrizzare il torto.  Chi lo ha subito, intanto, ha perso un pezzo di una vita, o la vita stessa come nel caso Tortora.
Per conto mio, non regge il teorema dell’Utri-mafia.  Dell’Utri ha ragione quando dice che i mafiosi non portano il distintivo.  Non mettono la voce “mafioso” nei  loro curriculum. Il torto, casomai,  ce l’hanno la Sicilia ad albergare la mafia,  Napoli la camorra, la Calabria la ‘Ndrangheta e a opprimere il resto del Paese con questo flagello.  Hanno una colpa etica e morale e culturale e anche economica, a non aver fatto niente per sconfiggerlo.  Frega niente che “tutti i siciliani” non siano mafiosi:  subiscono, tacciono, rintanati nella loro paura.   Vivono da ostaggi , pur sapendo con precisione, nei paesi e nelle città, chi è chi, mentre la gente di fuori non lo sa e non è tenuta a saperlo. 
Divagazioni?  (sento già mio figlio, mio marito…).  E allora diciamo che il teorema è smantellato dai fatti.   Come ieri Andreotti, Berlusconi (per il quale dell’Utri avrebbe creato il collegamento con la mafia) ha combattuto la mafia molto seriamente da quando è al governo, molto più seriamente di altri governi.  Ha ottenuto dei successi rilevanti.  I conti non tornano, se non per il fatto che Berlusconi non piace, anzi Berlusconi fa schifo, peggio di una piattola, e va schiacciato sotto il tallone.  Il momento di ora è particolarmente favorevole.  C’è aria di elezioni, Berlusconi è debole come non mai.  Aspetta solo l’ultimo colpo per cadere.  E arriva la sentenza dell’Utri.  Difficile credere che sia puro caso.  Difficile davvero… 

venerdì 19 novembre 2010

Novemilioni meno uno (speriamo di più)




Sono stata anch’io fra i novemilioni di spettatori di Fazio e di Saviano l’altra sera, quando Fini e Bersani sono stati invitati a leggere le loro filastrocche intrise di spaventevole perbenismo.  A quante pietose, retoriche, banalità, si può arrivare per ingannare il popolo bue?  Su di loro, meglio calare un pietoso velo, facevano bene a rinunciare.  Di Saviano, ho ammirato e gradito la capacità narrativa e la indubitabile scienza mafiologica, così come avevo apprezzato a suo tempo “Gomorra”, grande, forse unico, libro di questo giovane di talento.  Però ho temuto e temo la sua necessità di conformarsi e quindi di lasciarsi strumentalizzare, se non altro da un sistema mediatico malato che non può che diluire e corrompere qualsiasi capacità critica. Una speranza in meno, quando tanto si invoca forze nuove, giovani, non inquinate?

martedì 16 novembre 2010

Le roi est mort, vive le roi

vive le roi?
Ieri, Fini ha ritirato i suoi ministri dal governo, aprendo di fatto la crisi.
Oggi, il Presidente della Repubblica comincia le consultazioni con il presidente del Senato, com’è giusto, e con Fini, presidente della Camera,  il quale è anche capo del partito Futura e Libertà, e qui non va più bene.  E’ un caso di flagrante conflitto d’interessi che nessuno, per ora, vuole rilevare. 
Comunque “le roi est mort, vive le roi”, questo è il convincimento generale:  qualcosa succederà, si troverà una soluzione e si ripartirà ex novo.  No.  Potrebbe non accadere perché la caduta del governo potrebbe significare anche la caduta in ginocchio dell’intero Paese, stremato da un pesante debito pubblico, dalla crisi delle aziende, dalla disoccupazione, dagli scandali.  E soprattutto da una dirigenza politica disadatta a governare, da qualunque parte si collochi. Il re è morto ma non c’è non nessuno che lo possa sostituire, c’è solo una voragine d’incertezza.  Il Pdl è frantumato, certo, ma il Pd lo è allo stesso modo e sarà incapace, come ai tempi del governo Prodi, a tenere insieme variegati elementi in un’eventuale coalizione di governo e in un progetto comune.  Le azioni hanno sempre delle conseguenze.  Da anni, il pragmatismo e la razionalità nei progetti hanno fatto le spese della vanità e dell’ambizione degli individui.  E qui siamo.
E’ morto il re, ma le cose non si aggiustano necessariamente questa volta.  

mercoledì 10 novembre 2010

9 novembre 2010: ricordiamoci questa data


Ieri in parlamento Fini e i suoi ancora non dichiarati alleati, PD, più più più… (ne ha fatta di strada, l’uomo, dai tempi del MSI!) hanno messo in minoranza il governo sul trattato di amicizia con la Libia e in particolare sulla questione dell’immigrazione.  Bisogna ricordarselo, quando domani le spiagge del Meridione brulicheranno di nuovo di clandestini e si dirà che il governo non ha risolto il problema dell’immigrazione.  Io, di sicuro, me lo ricorderò.
Questa è una prima bordata di Fini e alleati.  Se ne prevedono molte altre contro il governo nelle settimane a venire.  Fini, dall’alto della sua dichiarata ambizione di diventare premier,  gongola e, con lui, il bravo Bersani.  Non sanno dove stanno andando e, soprattutto, dove ci stanno portando.
Intanto Berlusconi incontra Bossi, personaggio sottovalutato.  Dirige l’unico partito in Italia che è vicino al proprio territorio, ne conosce le problematiche, e vuole il Federalismo, forse la separazione. E Berlusconi ci si sente di casa, in quelle parti d’Italia e probabilmente accontenterà volentieri il senatur, sul Federalismo, s’intende,  sempre che ci sia ancora. 
Le cose si mettono non proprio bene, nell’anniversario dei 150 anni dell’unità d’Italia.  Dai e dai, riusciranno a spaccarla?
Il Presidente Napolitano ha ragione di fregarsi le mani dalla disperazione.  E’ stato un raro comunista a non sentirsi uno straniero in patria.  Sarà il René Coty dell’Italia odierna? Allora ci fu De Gaulle a rimettere insieme la Francia.  Qui non ci sarà nessuno a raccattare i pezzi d’Italia. 
Leggetevi l’editoriale di Ostellino sul Corriere di oggi.  Gli italiani, intanto, stanno a guardare, allibiti.

martedì 9 novembre 2010

Il bubbone


Quest’ultimo week-end,  ho lavorato sui miei registri vinicoli, ho letto un divertente romanzo di avventura di Clive Cussler (“The Silent Sea”), un noioso e oscuro saggio su Louis-Ferdinand Céline, di Philippe Muray.  Tutto per non sentire i clamori e le grida dei politici italiani.  Ma come evitare la plateale sortita di Fini, domenica, il suo ultimatum a Berlusconi e tutte le infinite sequele in televisione e sui giornali?  Mi sono un po’ rasserenata a guardare l’intervista di Sergio Romano su Sky, la sua razionalità e pacatezza è un balsamo.  Egli rileva l’inesistenza della politica negli eventi degli ultimi mesi, eventi che si riassumono in un mega rissa personale tra due individui, non certo un dibattito utile tra due alti rappresentanti dello Stato.  Darà le dimissioni, Berlusconi?  Non può.  Rilancerà con la fiducia? E’ probabile.  Cadrà il governo? E’ probabile.   Seguirà il  governo tecnico voluto dal centro e da Bersani?  Sergio Romano si augura di no, visto che un tale governo raccoglierebbe tutto il centro, ossia quella parte che vagheggia il non auspicabile ritorno al proporzionale.  Ciò significherebbe la fine del bipolarismo, raro elemento di novità di questi ultimi anni.   L’unica soluzione realmente politica sarebbe il ricorso al parlamento, la sede legittima per decisioni di questo genere. L’unico modo veramente democratico di risolvere l’impasse sarebbero le elezioni anticipate.  Sergio Romano avverte che, se continua la rissa in corso, non può che recare danno all’immagine del Paese e alla sua stabilità economica (la Finanziaria non è ancora stata votata), distruggendo la fiducia degli investitori stranieri e quindi la capacità dell’Italia di fare fronte al suo pesante debito pubblico.  E si chiede, come tutti noi, cosa verrà dopo le elezioni, data la (pessima, dico io) qualità delle forze in campo.
Pierluigi Battista, dal canto suo, rileva la stranezza di un Presidente della Camera che dà l’aut aut al Capo del Governo.  Cose mai viste che sottolineano la totale indifferenza verso la sacralità delle istituzioni.  Non accadrebbe in alcun altro paese civile. 
Ci si chiede quando scoppierà il bubbone.   Forse quando andranno a casa tutti, destra, centro, sinistra, sprovvisti come sono  di senso di responsabilità e di una basilare cultura politica.   La cosa può durare a lungo.  Il potere è un osso difficile da mollare.  Ci vorrà ancora del tempo prima che si affermi una nuova classe politica, giovane, non inquinata e con delle idee in testa


martedì 2 novembre 2010

L'autunno del Patriarca


Non si riesce a capire quale sia l’agenda segreta di Berlusconi, che cosa voglia dimostrare.  Sembra che abbia preso a mente fredda la via di uscita più scivolosa, più precipitosa, quasi suicida.  Sembra che voglia fare onde alte come tsunami, gettando non sassi ma macigni negli stagni altrui. In un certo qual modo, il suo anticonformismo, il suo atteggiamento politicamente scorretto, fa meraviglia se non altro per il coraggio che dimostra.  Non ha capito, né capirà mai, Berlusconi, che “certe cose non si fanno”, soprattutto quando si ha un’investitura politica come la sua, soprattutto quando si ha avversari politici così rabbiosi e così politicamente corretti, salvo poi essere così politicamente incapaci.
Le azioni personali di Berlusconi , purtroppo, hanno conseguenze gravose.  La galassia Italia sta esplodendo e le super nova che lascerà dietro di sé sembreranno, sì, ancora presenti davanti agli occhi, genereranno anche un po’ di energia, ma saranno corpi morti, un’illusione.  Non solo il Pdl, anche e soprattutto la Sinistra inconcludente che dovrebbe sostituirlo.
Triste autunno .  Triste Paese.

Sakineh deve morire


Sakineh non lo sa, ma domani sarà impiccata non per le sue presunte colpe - presunte, dico, perché si sa che sono imbastite dal regime e ogni giorno arricchite di nuove prove inventate o ottenute con mezzi disumani.  Morirà, questa povera donna,  perché il Regime iraniano deve vincere il suo braccio di ferro con l’Occidente.  La Repubblica Islamica deve dimostrare di essere impermeabile a ogni pressione, di poter fare comunque quello che ritiene consono alla sua dignità e indipendenza politica e ai dettami dell’Islam, con qualunque mezzo.  Continuerà nell’attività di repressione contro ogni dissenso, continuerà a preparare bombe nucleari da usare contro i suoi nemici.  Sakineh, non lo sa, non può saperlo, ma è solo un pretesto e, in quanto tale, è giustamente spendibile.  Non è di sicuro  un caso umano dal punto di vista del Regime.   Ma neanche gli uomini del Regime sanno che gli errori si pagano, grande giudice è sempre la Storia che di tragedie se ne intende. 

mercoledì 27 ottobre 2010

L'intoccabile

Il dossier Montecarlo è stato archiviato nel più garbato dei modi e con le più lievi prescrizioni.  Il prezzo dell’appartamento risulta congruo.  Nessuna frode, nessuna irregolarità o, diciamo,  “ingenuità” pare siano state commesse.  Meglio così, anche se risulta un po’ strano al comune buon senso.  Fini  era indagato, ma la notizia non è trapelata nei giornali.  Fini è quindi libero di riprendere la sua fruttuosa attività politica, sia come presidente della Camera sia come capo partito.  Niente da dire.  Sarà la Storia a dire l’ultima parola.  Come sempre.    

martedì 19 ottobre 2010

Segreto istruttorio

La rivista Panorama è indagata per aver infranto il segreto istruttorio nel caso Marcegaglia.  Caso gravissimo che causa una grande levata di scudi.  Perché si tratta di Panorama?  La domanda è lecita.
La cosa curiosa è che nessuno, proprio nessuno, rileva che il segreto istruttorio, da quindici anni a questa parte, è stato e continua a essere infranto giornalmente. Persino i verbali di Avetrana, di una storia senza alcun connotato politico, si riversano tali e quali e quotidianamente nei giornali. Nella maggior parte dei casi, tuttavia, ciò  avviene per danneggiare un avversario politico, o meglio dire l’Avversario per eccellenza.  Nessuno, in nessuna procura, ha mai indagato per sapere chi sono le fonti e come sono ricompensate.   Non sono mai state scoperte e tanto meno punite.
La deontologia è scomparsa dalla faccia della Terra, almeno in Italia.  Si ha ancora l’incredibile pretesa di chiedere agli italiani di aver fiducia,  di dire agli italiani che devono continuare a sentirsi protetti e garantiti in questo quadro ambientale.
Naturalmente, vi sono molti magistrati il cui lavoro si svolge nell’ombra e senza fanfaronate.  L’altra sera, sul programma di Fazio, è stato intervistato il procuratore di Reggio Calabria, Pignatone.  Uno che lavora in prima linea.  Uomo equilibrato, misurato, riflessivo, che conosce il suo territorio a fondo e combatte una battaglia disperata.  Quanti ce ne sono come lui?  Penso che siano più di quanto non appaiano, proprio perché non appaiono.  Non sono interessati all’esposizione mediatica, non chiedono di diventare eroi.  Hanno troppo da fare.  Ai loro subordinati hanno saputo inculcare la cultura dell’impegno e della professionalità piuttosto che dell’ideologia.  Questo è confortante ma non è sufficiente.  Perché la cultura dilagante è ormai un’altra,  esattamente agli antipodi, troppo seducente per non essere abbracciata dai più.  E finisce per vincere.
Roba che fa paura.

Re intercettazione



A proposito della saga Marcegaglia, mi sono chiesta, e molti con me, con quale decreto  e per combattere quale reato, sia stata predisposta l’intercettazione -immediatamente divulgata - della conversazione tra Porro e Arpisella.  Altre domande: da chi? A quale scopo?  Sia la messa in atto che la divulgazione. 
Porro e “Il Giornale” non hanno fatto altro che mettere in fila i dossier raccolti da concorrenti assai più potenti e allineati come Repubblica, l’Espresso.  E’ stata da parte de “Il Giornale” un’operazione spericolata e, a dire poco, ingenua.  Feltri credeva, nella sua furbizia, di poter dimostrare che i dossier raccolti da una certa parte sono considerati leciti, legittimi e corretti e, inversamente, quelli raccolti da lui fasulli, contraffatti e inaccettabili.  E’ caduto in una trappola mortale.  Nessuno lo ha ascoltato perché il suo giornale appartiene alla sfera berlusconiana, perdente per definizione.  Nessuno da’ retta ai perdenti, e tantomeno li difende. 

giovedì 14 ottobre 2010

Ha ragione Bonanni



E’ stata aggredita di nuovo una sede della Cisl a Roma. Bonanni, sempre molto pacato, parla di uno squadrismo estraneo al mondo del lavoro.  E ha ragione.  La gente che lavora, o che non può più lavorare a causa della crisi, ha ben altre gatte da pelare. Detto questo, lo squadrismo non è da sottovalutare anche se, almeno per ora, è minoritario.  Ben presto potrebbe prendere il sopravvento.  Le rivoluzioni, che sono per lo più inutili e dannose, hanno usato e strumentalizzato gli squadristi che si consideravano ed erano considerati come la punta di diamante del cambiamento. Per Lenin  erano essenziali, Mussolini gli usava senza scrupolo, Hitler gli ha istituzionalizzati, in Iran i pasdaran sono presto diventati i pilastri del regime islamico, così come in Afganistan i Taleban che hanno perso il potere ma lo stanno per riprendere.  Sappiamo quale cambiamento hanno portato quelle rivoluzioni.  

Gli squadristi possono diventare l’arma di regimi potenzialmente pericolosi e tendenti alla tirannia, non certamente democratici. Emergono in tempi difficili e torbidi, prevaricano con la violenza a danno della gente comune che subisce e si piega senza potersi difendere.   In società fragilizzate e disorientate, riescono facilmente ad avere la meglio, e ciò preannuncia conseguenze assai più ampie. Guai a considerarli un fenomeno isolato e, per questo, facile da circoscrivere.  Hanno un forte effetto di trascinamento per la paura che incutono, la gente finisce per accettare, per inneggiare e seguire, salvo poi tornare indietro quando le condizioni lo consentono.  Sul momento (vedi la partita Italia-Serbia), o sulla lunga durata (comunismo, fascismo, islamismo).  Guai a non difendere le difese naturali della società, la sua salute psicologica, politica, economica dalla quale nasce la sua capacità di reagire

sabato 2 ottobre 2010

Presunzione di colpevolezza



Berlusconi fa battute inopportune, è vero, qualche volta anche proprio stupide.  Non ha ancora capito che essere un personaggio pubblico comporta, oltre che i privilegi, anche  vincoli molto stretti.  Né ricorda mai che qualunque cosa dica, per quanto irrilevante,  anche se in privato o fuori onda, sarà risaputa e diffusa, diventerà oggetto di scherno, di polemica, d'indagini giudiziarie.  


Non mi piace Berlusconi, lo ribadisco.  Noto, tuttavia, che contro di lui vige ormai l'universale giudizio di colpevolezza (morale, politica, economica), e la sostanziale presunzione di colpevolezza in campo giudiziario.  Fa riflettere.  Ciò è forse dovuto al fatto che  nel Paese Italia, quello politico, mediatico, giudiziario, è scomparso il principio stesso dell'innocenza e della presunzione d'innocenza?  Non si può usare perché non c'è più? Oppure non si può usare solo per Berlusconi?  In entrambi i casi,  non c'è da esserne orgogliosi.  Bene, comunque, esserne consapevole. 

Tre giorni nella storia d'Italia



Ho sempre avuto il brutto vizio di sottolineare  (a matita!) i passaggi che m’interessano in un libro.   Il libro che sto leggendo ora, dovrei sottolinearlo  tutto.  In realtà, è un libro piccolo piccolo, ma il contenuto vale quanto un’enciclopedia.  Un’enciclopedia mentale, quella di Ernesto Galli della Loggia.  Il titolo è “Tre giorni nella storia d’Italia” (Il Mulino, 2010).  I tre giorni sono il 28 ottobre 1922 con la marcia su Roma, il 18 aprile 1948 con la vittoria della Democrazia cristiana sul fronte delle sinistre, il 24 marzo 1994, con l’affermazione di Silvio Berlusconi.  Giornate di grande valenza storica di per sé?  No.  Piuttosto,  tre crocevia in cui di volta in volta il Paese Italia poteva imboccare una strada piuttosto che un’altra e, scegliendo bene, arrivare alla meta, ossia a una vera democrazia liberale .  Non lo ha fatto.  Galli della Loggia ci spiega perché, dandoci gli antefatti, il contesto, gli sviluppi e le conseguenze.
Non posso sottolineare tutto il libro, ancora meno parafrasarlo.  Non gli renderei giustizia.  Meglio che ognuno lo legga per conto suo, purché con grande cura, a cominciare dall’introduzione.  L’autore ci racconta la storia vera, di cui ha raccolto tutti i fatti, rimettendoli insieme senza alcuna sapienza ideologica, ma con l' oggettività e l'acutezza che gli conosciamo.  La storia vera ripercorsa da uno storico vero.


martedì 28 settembre 2010

Ancora molti decenni


Dicono oggi i principali artefici (veri artefici?) che ci vorranno ancora molti decenni prima di giungere a una pace duratura nell’area israelo-palestinese del Medio Oriente.   Ci vorrebbe molto meno,  se si deponesse le armi, e non solo:  anche i pregiudizi.  Basterebbe per capirlo, mettere nel piatto  della bilancia i disastrosi risultati di un confronto armato ormai annoso, inutile, sanguinoso e i probabili effetti positivi della pace, per tutti.   Non si capisce perché sia così difficile.

Sakineh di nuovo



Lapidazione (male minore, visto che colpisce solo l’adulterio), impiccagione che colpisce l’omicidio di cui Sakineh sarebbe colpevole, anche se lo ha confessato con ogni probabilità sotto tortura.  Comunque morte. Ahmadinedjad che (mente) dice all'ONU che la condanna non è stata comminata, il procuratore che dice quanto sopra (impiccagione piuttosto che lapidazione, evviva!), il portavoce del ministero degli esteri iraniano Ramin Mehman Parast che dice che la condanna non è ancora stata emessa. Condanna sì, condanna no… Continua il gioco alla disinformazione intorno a questa povera donna, e si innesta sul problema del nucleare.  Braccio di ferro tra il regime islamico che non vuole interferenze straniere  e (qualcuno del) governo che si rende forse conto che l’Iran si trova su una china precipitosa. Sakineh rischia di morire non solo per un delitto che non ha commesso ma per questioni internazionali di cui non è minimamente responsabile e probabilmente del tutto all’oscuro. Incredibile vicenda.  Siamo grati comunque che di Sakineh si parla ancora.  Forse qualcosa di buono ne verrà.

mercoledì 22 settembre 2010

Big questions

These days officials of different countries are meeting in Moscow to open or perhaps to settle the disputes on the ownership of the mineral wealth in the Artic, mainly the oil that lies under the ocean, amounting to a quarter of existing reserves on the planet.  Three years ago, the Russians planted their flag on the Artic, an age-old gesture that is a declaration unto itself.  The other Northern countries, namely Canada, Norway, the U.S., did not take this as a gesture of appeasement and dialogue. The Artic rush had begun, and with the cracking ice-cap, a new urgency soon flared among the would-be claimants.  Now is the time for exploration and exploitation.  The question is who will get there first, the unacceptable threat is who will be left out?   Can the first be the subject of discussion, can the second be averted by conciliation?  Will the Artic oil become a cause of strife, perhaps even war?  Or will reason overcome the consuming greed for oil and allow a fair power-sharing for the good of humanity?  Big questions, talking about oil...

Molinello Eventi - Amineh Pakravan - Seconda parte

Molinello Eventi - Amineh Pakravan - Prima parte

domenica 19 settembre 2010

Rom sì, Rom no


Io non ho niente contro gli ebrei , ho molti amici ebrei, però…  Non ho niente contro i  Rom (non ho nessuno amico Rom, ma questo è un dettaglio), però… Spesso il discorso comincia così.  Semplice opinione oppure l’inizio della discriminazione?  Nei normali rapporti umani, si ha il diritto di avere simpatie o antipatie, anche istintive, ma sempre e solo verso i singoli,  non verso stereotipi, altrimenti si cade nel  pregiudizio. 

I Rom sono di tutto un po’,  bravi, cattivi come lo sono tutti gli uomini della Terra. Non si può dare un giudizio definitivo di colpevolezza o d’innocenza sulla base dell’etnia, della razza ecc. , decidendo che l’una e/o l’altra va considerata minoranza da proteggere,  o come minoranza invasiva da espellere.  Meglio pesare ciascuno per il peso che ha, a qualsiasi etnia, razza o religione  appartenga, dargli torto o ragione per quello che fa, senza impacchettarlo in qualche categoria mentale e/o politica che fa scomparire gli individui nelle statistiche.  Qualcuno diceva in questi giorni:  70% dei Rom sono brava gente, ben integrata, lavoratrice.  Qualcun altro: 70% dei Rom sono disadattati e delinquenti.  Giudizi per forza condizionati dal conformismo di appartenenza di chi li  emette, arbitrari per definizione, in negativo e in positivo, anche se provengono dalla globale vox populi,  e peggio ancora se confluiscono alla rinfusa nelle decisioni politiche.  L’unico atteggiamento corretto è di considerare tutti uguali, sotto le leggi dello Stato in cui risiedono e delle quali devono per forza avere rispetto.   Nella fattispecie, gli Stati nazionali della UE.

martedì 14 settembre 2010

Apocalypse Now Redux


Qualche sera fa ho visto la versione integrale di Apocalypse Now, di Francis Ford Coppola, trent’anni dopo aver visto la prima versione. Mi ricordavo bene del film. Mi aveva colpito molto allora e anche ora. Racconta dell’orrore alla fine della guerra del Vietnam e della follia che si è impossessato dei soldati americani. Erano 550000 a quel tempo, dentro al tunnel senza fine di quel conflitto. Bravi ragazzi per lo più, alle prese con la struggente nostalgia di casa loro e con l’inevitabile odio per questa terra dalla folta e infida vegetazione e per l’ invisibile, insidioso nemico che la popolava. Placavano la disperazione con droga, alcol e sesso, ma era tregua momentanea. Tentavano in tutti modi di ricreare i riti conosciuti della loro vita americana. Barbecue in mezzo alle bombe, surf sulle onde di un mare bersagliato da colpi di artiglieria, bunny girls di Hugh Hefner portate in mezza alla giungla, su un grande palcoscenico circondato dalle truppe impazzite, in un’atmosfera surreale, riportate via subito perché a rischio di stupro multiplo. Bravi ragazzi, abituati alla congeniale vita comunitaria dei suburbs americani o delle piccole città della provincia profonda. Abituati agli agi del consumismo, al senso civico che governava il vicinato, alla socievolezza che era la regola maestra, alla normale concorrenza dei singoli per la felicità e per una vita migliore. Non avrebbero ammazzato una mosca. Eppure…

venerdì 10 settembre 2010

La tensione sociale


Sentivo Epifani ieri sera che parlava di gravi tensioni sociali, rifacendosi ai clamori dei grillini e dei centri sociali negli ultimi dibattiti delle feste PD, e all'aggressione a Bonanni.  E Enrico Letta, subito dietro a ribadire.  Mi sembra molto eccessivo e forse anche pericoloso - una sorta di chiamata alle armi? - considerando che i grillini più i centri sociali sono un'infima parte della popolazione italiana e credo un'infima percentuale della popolazione lavoratrice del Paese.  I lavoratori, quelli veri che sono la stragrande maggioranza, si guardano bene da questo genere di eccesso.  E' gente che ha seri problemi e un serio senso di responsabilità, per quanto stia affrontando in prima linea la crisi e la disoccupazione.  Non credo che abbiano voglia di buttare olio sul fuoco.  Il Sindacato farebbe bene a non farlo neanche lui se vuole evitare la brutta figura di irresponsabile, interessato unicamente ai propri diritti corporativi.  Non è tempo.   

lunedì 6 settembre 2010

Morte di Sakineh

Dicono che Sakineh morirà lapidata venerdì al crepuscolo, al termine del mese di Ramazan. Con lei morirà l'Iran di vergogna oltre che di dolore, vergogna per quello che è diventato con il regime islamico, dolore per la lapidazione, la più brutta forma di morte, come il rogo degli anni bui della cristianità, un infierire di tutti contro i singoli.
 Sakineh, donna comune, donna qualunque, con ogni probabilità innocente, trasformata in mostro mediatico da un regime senza freni, ormai accelerato su un pendìo di distruzione, pronto a tutto contro tutti. Non riconosco più questo paese come il mio. Non posso più neanche ricordare la sua incredibile bellezza. Vedo solo una grande barra dove è sepolto un intero popolo.

domenica 5 settembre 2010

Sakineh

Sakineh Mohammadi Ashtiani è già stata frustata a dovere, presto verrà giustiziata, forse senza preavviso, per mettere il mondo davanti al fatto compiuto. Nuove prove sono state fabbricate a suo carico, a mano a mano che cresceva la protesta internazionale. Si sa quanto il regime islamico detesti gli interventi stranieri in ciò che considera il suo dominio assoluto sull'Iran.

Sakineh Mohammadi Ashtiani
Da domandarsi: perché il regime ha bisogno di creare queste situazioni di non ritorno, a che cosa gli serve l'esecuzione di Sakineh, soggetto infimo, indifeso e, per giunta, innocente? La risposta è semplice: un regime tirannico ha bisogno di tenere la sua gente sotto il giogo del terrore per affermare il proprio arbitrario potere dentro e fuori del Paese. Dopo le elezioni del 12 giugno 2009, questa necessità è diventata impellente. Ogni occasione è utile e i dirigenti iraniani sanno bene che pure un caso come quello di Sakineh scatenerà una forte reazione nei media internazionali. Ed è quello che vogliono: che si parli di loro e dell'invincibilità del regime islamico. Inoltre, avranno un'altra occasione d'inveire contro l'ingerenza straniera e, presumibilmente, mettersi per questo dalla parte della ragione. Fini strateghi. Anche nel nucleare usano la stessa tecnica. Prendere tempo, tergiversare, confondere le acque, manipolare l'opinione pubblica nei paesi islamici. Non cedere mai. Ottenere quasi di soppiatto ciò che vogliono. Oltre la morte di Sakineh e dei tanti desaparecidos iraniani, otterranno anche la bomba nucleare?

venerdì 3 settembre 2010

Il riscatto dell'Europa verrà dall'Est


 

Stasera, distrattamente, gardo la partita Italia-Estonia. L'Estonia ha appena fatto gol nel primo tempo contro la squadra pur promettente di Prandelli. E questo mi conferma nell'idea che sto sviluppando da mesi: il riscatto dell'Europa verrà dall'Est.
La ragione è semplice: l'Europa dell'Est sta cercando il proprio riscatto da decenni di assoluta subordinazione alla volontà dei più forti. Ed è come se mettesse i bocconi doppi per recuperare il tempo perduto. Popoli e singoli sono determinati, disposti a qualsiasi sacrificio, pure di migliorare la propria sorte . Nel mio lavoro vitivinicolo, ho a che fare con loro, ucraini, siberiani. La cosa che mi stupisce è la loro docilità nell'accettare qualsiasi lavoro, faticoso o sporco che sia - e durante le vendemmie sono sempre faticosi e sporchi per tutti - e di imparare velocemente tutto ciò che viene chiesto loro. Giovani e meno giovani. Sono intelligenti e attenti e incredibilmente energici. Non chiedono privilegi, non si aspettano coccole. Persino i senegalesi sono più viziati di loro, non parliamo degli italiani, oggi disoccupati in gran numero, i quali non possono sopportare il disagio di certe situazioni di lavoro, la decurtazione della proprio libertà e del proprio tempo libero.
Finché dura. Impareranno anche gli Europei dell'Est ad adagiarsi, a chiedere più di quanto può offrire la realtà: più protezione, più opulenza, più diritti, e meno, sempre meno doveri? Sarebbe normale, ed è giusto finché non diventa un abuso. Finché la CEE non li riempie di aspettative e di illusioni, nel mentre uccide ogni loro iniziativa con il suo pachiderma burocratico, e ogni loro aspirazione con la sazietà forzata dovuta a suoi cittadini. Se riescono a schivare queste trappole mortali, se riescono a fare prevalere questo dinamismo sulla nostra stanchezza di vivere, gli europei dell'Est saranno il motore del riscatto dell'Europa.

Bé, l'Italia ha appena fatto due gol. Sono giovani, i ragazzi di Prandelli anche se infinitamente più privilegiati di Vitali, Maksim, Zoya, i miei ucraini. La loro gioventù dà qualche speranza.

giovedì 2 settembre 2010

C'é ancora qualcosa da dire?

Ho perso un po' l'interesse, posso dirlo? Nella politica, nella cultura, nella storia, tutte cose che per me sono state di importanza fondamentale, da sempre. Mi sembra che viviamo una confusione inestricabile.

1) Nella politica italiana: ormai la posta in gioco per tutti - a cominciare da Napolitano, per passare poi a Fini, Di Pietro, all'incapace PD che vuole creare un novello Ulivo (!)- è di togliere di mezzo Berlusconi. Si può essere anche d'accordo, ma non si vede una proposta politica alternativa. Chi la può proporre? D'Alema, che sto guardando adesso su SKY TG Active? Infilza con grande sufficienza preziose polemiche, una dopo l'altra, banalità, banalità... Non si è mai esposto in prima persona, gode dei privilegi che si è creato in qualità di eminenza grigia, molto grigia. E' sempre stato di una prudenza quasi patologica nel difendere un suo futuro ormai atrofico e ipotetico, dato il carattere e l'età. Fini cerca di proteggere i suoi scheletri nell'armadio e uscire fuori vivo, mettendo tutti contro tutti, qualunque sia il costo per la collettività. Casini cerca di vendersi al meglio offerente da tempo, a costo di ammazzare il Centro. Rutelli è quello di sempre, peso piuma per eccellenza. Tutti si richiamano alla democrazia e a un liberalismo ormai agonizzanti, tutti sono mossi da vanità e da secondo fini.

sabato 12 giugno 2010

La legge sulle intercettazioni

Tutto questo caos intorno alla nascente legge sulle intercettazioni poteva essere evitato.
La verità è che questa legge si è resa necessaria per un fatto inconfutabile e largamente documentabile: le fughe di notizie dalle Procure e la mancanza di controllo da parte di queste, forse la volontà precisa di non controllarle.
Premesso che ai giornalisti spetta il diritto/dovere di informare la pubblica opinione su ogni notizia, premesso che i giornalisti da tempo immemore hanno anche il diritto/dovere di proteggere le loro fonti, resta solo da constatare che, in fatto di fughe, la responsabilità risiede esclusivamente con le Procure. Se queste avessero vigilato come si deve
1)sulla costituzionale presunzione d’innocenza che vale per tutti, invece di considerare più utile ai propri fini (politici?) la presunzione di colpevolezza, tanto meglio se propagandata sui media
2)sul diritto sacrosanto alla privacy di tutti, senza discriminazioni
3)sulla rispondenza, in termini numerici e temporali, delle intercettazioni ai reati effettivi e non presunti oppure inesistenti
4)sulla funzione primaria del sistema giudiziario che non può sovrapporsi o sostituirsi alla funzione investigativa delle forze dell’ordine, bensì deve basarsi su questa per accertare e istruire i casi di reato.
Fatte queste premesse, se queste poche regole fossero state rispettate dalle Procure, oggi non avremmo davanti una legge farraginosa sulle intercettazioni, ingiusta verso i giornalisti e l’opinione pubblica, lesiva del corretto svolgimento della lotta alla criminalità di tutti i tipi e non solo terroristica o mafiosa, una legge giustamente contrastata dall’opposizione e da una parte della stessa maggioranza, certamente dai giornalisti che sono penalizzati in modo inaccettabile e da coloro a cui spetta l’ordine pubblico che non possono correttamente svolgere il proprio lavoro.
Le cose sono semplici così, quando non sono inquinate dai secondi fini, essenzialmente corporativi. C’è da chiedersi perché non lo dice nessuno./o:p>
Dove sta la solidarietà e l’equità a cui si richiama la CGIL?  Non è più il Paese di Bengodi, questo.  Il tappetto è troppo striminzito.  Tira e tira, qualcuno resta scoperto e sono sempre gli stessi.

lunedì 31 maggio 2010

Alice nel Paese delle Corporazioni


 Mi sento come Alice, stupefatta da ciò che vedo e da ciò che sento in questi giorni di approvazione del decreto governativo sulla manovra economica.  Buono o cattivo che sia, lo sforzo di affrontare la situazione e di non schivare l’impopolarità c’è e forse qualcosa di più.  A sentirsi parte in causa  nel risanamento del Paese c’è solo una metà del Paese, quella che lavora senza tante storie, quella che produce ricchezza per davvero, per quanto ci riesca nella congiuntura attuale e che, tuttavia, deve sempre rendere contro a qualcuno.  Dall’altra parte ci stanno le corporazioni, molto potenti.   Che cosa sono le corporazioni?  Cerchiamo di darne una definizione:  un insieme di tribù, con le loro logiche ferree, i loro interessi ferrei,  l’incapacità di uscirne e di affrontare il nuovo che è rischio per eccellenza.  Sono tanti ad appartenervi, collocandosi in vaste aree privilegiate e garantite: Regioni, comuni, USL, sindacati, la scuola, l’Alitalia, le Ferrovie, i trasporti pubblici e, in generale, l’impiego pubblico,  le numerose cooperative e i consulenti che  vi sono collegati e non dimentichiamo la magistratura che oggi minaccia lo sciopero, uno scandalo (come se lo minacciasse il Presidente Napolitano, altro caposaldo istituzionale, peraltro presidente del CSM) e non dimentichiamo neppure i giornali, ampiamente foraggiati dallo Stato.  Sono seduti su una montagna di certezze che non vogliono vedere minacciate a nessun costo.  Non sono disposti a cedere una briciola al bene comune. Prevalgono gli interessi particolari contro l’interesse generale, senza una vera giustificazione.  I membri di queste tribù non contribuiscono in particolar modo alla ricchezza e neanche al servizio della nazione, sono troppo occupati nelle loro beghe personali e tribali.  La loro unicità sta nel fatto di essere tanti e protetti per diritto, dal momento che costituiscono il grande vivaio elettorale del mondo della politica. 
Dove sta la solidarietà e l’equità a cui si richiama la CGIL?  Non è più il Paese di Bengodi, questo.  Il tappetto è troppo striminzito.  Tira e tira, qualcuno resta scoperto e sono sempre gli stessi.

martedì 18 maggio 2010

i post di oggi

In "lectures - fr" : Faut.il aimer Céline?
In "racconti" : Tariq Ali Khan - 4. Volete cambiare la fine? I suggerimenti saranno ben accolti e anche messi alla prova. Alla fine il racconto sarà pubblicato per intero

Tariq Ali Khan - 4

Era un altro uomo. Se avesse voluto guardarsi allo specchio, si sarebbe stupito di vedere una faccia sconosciuta, magra, indurita dal sole e dalle intemperie, le occhiaie profonde, i capelli nascosti dal largo turbante nero che aveva rimpiazzato la ciambella color terra indossata tradizionalmente dai pashtun, la barba, infine, cresciuta piuttosto rada e incolta, non molto pulita. Tranne le abluzioni rituali, seppure perfettamente eseguite ogni giorno, non c’era modo di lavarsi a fondo. Tariq non se ne curava da tempo. Si era come dimenticato di se stesso, del ragazzo che era stato, dei suoi sogni italiani e non lasciava riemergere alcuna immagine del passato. Fu la paura a ricordargli che esisteva, a ricordargli la sua realtà in carne e in ossa che, da un giorno all’altro, rischiava di andare a pezzi. Non capiva la morte, non riusciva neanche a immaginarla. Allora si chiedeva quale era preferibile: quella di Ashraf, di Hamzah, di Ebadullah? La cintura, dicevano in molti ormai. Era praticata con ottimi risultati dai fratelli iracheni, consentiva di arrivare sul bersaglio senza farsi notare. Un poveraccio somiglia a mille altri poveracci e passa inosservato semplicemente perché nessuno lo guarda. E, forse sì, quella morte sarebbe stata preferibile perché istantanea.

La neve era scomparsa da tempo. Era passata la primavera, quasi inosservata ed era arrivato il gran caldo, tempo di guerra per eccellenza. Tariq Ali dovette fare fagotto. Lo rimandavano indietro, nello Helmand, e si doveva stabilire a Garmsir, cittadina nella parte meridionale del distretto. L’offensiva comune degli americani e degli inglesi aveva raggiunto l’obiettivo e, dopo vere battaglie, con i nemici che si fronteggiavano a suon di artiglieria, gli stranieri erano ormai riusciti a fare sloggiare gli insorti. Costoro avevano girato i tacchi. I contadini erano tornati con le loro famiglie, avevano ripreso i lavori nei campi, riparavano tetti e muretti di cinta sbrecciati dalle sparatorie. Si lasciavano avvicinare dalle truppe inglesi rimaste, e ascoltavano le offerte di danni di guerra, di aiuto per il ripristino del sistema d’irrigazione che prendeva l’acqua dal vicino fiume. Una tregua insperata di cui approfittavano gli insorti per mimetizzarsi definitivamente con la popolazione. Tariq Ali, con loro.

Lo avevano indirizzato al bazar di Darweshan che aveva ripreso l’attività a pieno ritmo. Passava molto tempo seduto sulla soglia della bottega di un barbiere, bevendo infinite tazze di tè nell’attesa che gli fossero riferite le notizie che portavano i clienti e soprattutto in attesa degli ordini dall’alto. La notte, era ospitato nell’unica stanza del barbiere e lì stava anche il fratello, privo di gambe. Gli erano saltate via durante la battaglia di Helmand, mentre stava parlando al suo capo, a riparo di un muretto. Un drone era passato sopra di loro, ne aveva identificato l’esatta posizione e li aveva colpiti. Il capo era morto e lui era rimasto gravemente menomato. I suoi compagni lo avevano caricato su un pick-up, nascondendolo sotto le balle di mais per la prossima semina. Lo avevano portato all’ospedale degli italiani a Lashkar Gah, dove nessuno faceva domande. Era tornato a casa con due moncherini al posto delle gambe. Non poteva più chinarsi verso la Mecca, ma era ancora vivo e ora sedeva giorno dopo giorno su uno stuoino, a rimpiangere il suo passato di guerriero. Era lui il vero referente di Tariq, gli raccontava come erano andate le cose, gli spiegava come dovevano andare.

Cominciarono a uscire, a farsi vedere insieme. Era necessario per meglio fondersi nel paesaggio e non dare nell’occhio. Tariq spingeva la sedia rotelle dell’amico, costruita con assi di legno e ruote di bicicletta. Facevano un breve tratto fino al campetto del barbiere e Tariq sarchiava, zappava e ascoltava i discorsi di Sardar, mormorati con voce cupa. Gli spiegava come le nuove leve di combattenti insorti avevano riportato in primo piano la guerra santa. Pashtun sunniti contro gli sciiti oltre il confine iraniano, kashimiri mussulmani contro indù, uzbechi mussulmani contro la Russia non più comunista ma prepotente lo stesso, pronta a soffocare le istanze religiose che potavano dilagare nella regione, pachistani mussulmani contro americani non solo cristiani ma anche egemoni, con i loro soldi e la loro pretesa di dettare legge al governo di Rawalpindi. Il segno vero dell’insorgenza era l’Islam e caratterizzava, più dell’oppio, la lotta raso terra, fuori dai giochi d’interesse dei grandi capi. Tariq riusciva a focalizzare le cose meglio che in passato. Sapeva che Sardar non stava fornendo la sua personale opinione, gli descriveva un nuovo aspetto della situazione. Ciò provocava in lui l’amaro rimpianto di aver rinunciato così a lungo ai dettami sacri dell’Islam, di aver desiderato con passione le ricchezze dell’Occidente, le carni impudiche delle donne sulle spiagge italiane, una libertà che gli aveva fatto perdere il senso della propria dignità. Voleva pagare l’errore, meglio ancora con la morte.

Era chiaro ormai che gli insorti non potevano confrontare i nemici in battaglia. Dovevano scoraggiarli con azioni mirate e numerose, togliendoli il sonno la notte, tenendoli sempre in stato d’allarme. Dicevano che gli stranieri erano i cani e loro le pulci, innumerevoli, in grado di uccidere il loro ospite. Questa nuova strategia del mordi e fuggi era cominciata in piena estate, e impiegava altri pachistani, più spendibili forse agli occhi della popolazione.

L’arma migliore era quella che gli stranieri chiamavano ieds. Erano ordigni improvvisati che al posto dell’esplosivo, usavano prodotti agricoli, perlopiù concimi chimici facilmente reperibili e gasolio, componenti rudimentali che si potevano comprare in ferramenta, spago, nastro adesivo, filo di alluminio, pile comunissime. C’era anche un’imbottitura di chiodi e bulloni che, nell’esplosione, sarebbero schizzati ogni dove, per recare il maggior danno possibile. Il marchingegno era installato nei bossoli di artiglieria abbandonati sui terreni di battaglia o, alla peggio, dentro una semplice scatola di cartone. Era poi nascosto sotto il ciglio di una delle tante stradine sterrate che correvano tra il fitto reticolo dei fossi d’irrigazione e congiungevano un villaggio all’altro. I grossi mezzi blindati della Coalizione erano costretti a percorrerle a passo d’uomo e non potevano evitare di schiacciare con le ruote quelle mine caserecce. Adesso correva voce che i nemici avessero congegnato un nuovo, indistruttibile veicolo antimina e qualcuno li aveva pure avvistati, ma solo sulle strade importanti. A Garmsir, nella zona verde, aprirne di nuove tra muretti e fossati era impossibile. Gli stranieri erano intrappolati, il loro progresso era rallentato dalla ricerca delle mine. Talvolta ci mettevano una giornata intera per bonificare una strada, e appena credevano di avere superato l’ostacolo, s’imbattevano in altri ordigni micidiali che gli insorti piazzavano avanti avanti a loro. Morivano come mosche, dentro i loro mezzi squarciati, o fuori quando erano costretti ad andare a piedi. Avevano vinto la battaglia dei due anni precedenti, non avevano vinto la guerra, perché la vera guerra era adesso.
Tariq e Sardar sapevano di essere anelli di una lunga catena invisibile. Nella catapecchia dentro l’orto del barbiere fabbricavano i loro strumenti di morte, e nel cuore della notte Tariq andava, vanga in mano, a posizionarli in punti prescelti. Di giorno, volavano gli elicotteri e viaggiavano i blindati, la campagna brulicava di militari. E anche la notte poteva essere pericolosa. Gli successe, così, di imbattersi in una pattuglia alla ricerca dei morti del giorno prima, o in un gruppo di artificieri che a tarda ora non aveva ancora finito il lavoro. Due volte, dovette mollare lì i suoi pacchetti sotto un cespuglio e darsela a gambe. In entrambi i casi, ebbe fortuna. All’alba sentì lo stesso la deflagrazione, segno che qualcuno c’era passato sopra.

I consigli di Hamza erano serviti, niente fili elettrici stesi, niente telefonini: il detonatore era piazzato sotto placche di pressione, e bastava il peso del veicolo, o anche di un uomo a piedi a innescarlo. Tariq non si attardava. Intorno a una zona minata di fresco, c’era solitudine e silenzio. Nessuno si faceva vedere, il passaparola funzionava. I militari occupanti lo sapevano, si spaventavano ad attraversare luoghi completamente deserti. Rastrellavano le case e gli orti nascosti dietro i muretti di terra battuta. Erano venuti anche da loro una sera sull’imbrunire. Tariq e Sardar erano seduti fuori a fumarsi una pipa di oppio. Non c’era niente da trovare, tranne arnesi da lavoro, taniche vuote, qualche cesta di cetrioli. Se n’erano andati, dicendo che la stradina sarebbe stata chiusa l’indomani. Di lì non sarebbe più passato nessuno. Tariq decise un’ultima sortita. L’ordigno era già pronto per ogni evenienza, sepolto in una fila di pomodori. Se chiudevano la strada, di sicuro voleva dire che l’avrebbero usata e non poteva lasciar passare l’occasione.

L’orto del barbiere non era lontano dal ponte sul canale principale ricostruito da poco dagli americani. Quest’ultimi, insieme ai soldati inglesi, avevano svolto anche un grosso lavoro di ripristino di tutto il sistema d’irrigazione realizzato negli anni Cinquanta da una ditta USA, e poi caduta in degrado. L’ideale sarebbe stato attaccare il ponte stesso, dove passavano spesso i mezzi militari, ma non era realistico giacché era presidiato. Per di più serviva anche alla popolazione locale che l’insorgenza non voleva mettersi contro. Tariq scelse un fosso di scolo abbastanza aperto, con una fila di palme a venti metri, una vegetazione più fitta e disordinata appena in paese, che poi diradava prima che le acque si ricongiungessero al sistema principale. C’era un punto preciso che Tariq voleva evitare dove il fosso si slabbrava un poco e correva lungo il viottolo. Lì, le donne andavano a prendere l’acqua e a lavare i panni, e Tariq non voleva morti innocenti sulla coscienza. Più in là, la strada in uscita si faceva un po’ più ampia ma era sconnessa e piena di pietrisco. Aveva visto molte volte i veicoli di passaggio rallentare in quel punto. Le sponde del canale erano friabili e si adagiavano con un pendio leggero nell’acqua. Con poco sforzo avrebbe potuto piazzare il suo pacco rinvolto nella carta marrone.
Quella sera riportò Sardar a casa e tornò indietro che era già buio. Stesse in attesa, fumando, e riflettendo. Finora, era andata bene, aveva raggiunto gli obiettivi e non era morto. Si sentiva più sicuro, anche se il suo cuore pareva un sasso ormai. I soli pensieri che gli frullavano in testa come un ritornello impazzito erano che non voleva morire, non voleva tradire, non voleva uccidere.

Poco prima dell’alba, rinvolto che ebbe la sua scatola in una pezza legata con quattro nodi, uscì dal recinto dell’orto e s’incamminò con la vanga a spalla. Costeggiò la fila di palmizzi poi, tagliando di sbieco, si addentrò nella parte più coperta lungo il canale dove non filtrava alcuna luce. Tariq giunse laddove la sponda era più dolce, scavò velocemente sotto il ciglio e piazzò la mina direttamente sotto il pietrisco, ricoprì il tutto con la terra smossa. Quando tornò sulla strada, gettò un’occhiata all’indietro, vide che non c’era niente da vedere. Procedette a passo spedito. Il sole cominciava a salire e la giornata prometteva di essere rovente. Udì il rombo dei veicoli militari sul ponte. Una pattuglia avanzava in avanscoperta e come Tariq fu avvistato dai soldati, scoppiarono grida di “yallah!Yallah”. Fece dietrofront, il cuore in subbuglio e fu allora che la vide. La bambina che spingeva una carriola con una tanica per l’acqua sopra. Non più di otto anni, un vestitino di cotone scuro che le scopriva le ginocchia. Era quasi all’altezza dello slargo dove le donne abitualmente venivano a fare il bucato. Faticava a guidare la carriola, doveva spingere forte. Tariq, spaventato, prese a correre, urlando “yallah!yallah anche lui, facendo grandi segni con le braccia per farla allontanare. Lei alzò la testa,lo guardò smarrita, rallentò, non si fermò subito. Tariq proseguì la sua corsa impazzita, dentro di lui un unico grido: No! Non lei, non lei!! Gli pareva di volare sul pietrisco. Si accorse all’ultimo minuto di esserci sopra, alla mina. Solo io, pensò. Nient’altro.

Peut-on aimer Céline?

Peut-on aimer Céline?
Sa hargne, son langage vulgaire, ses récriminations continuelles…. Ce n’est pas vraiment nécessaire. Au début, il faut simplement baisser ses gardes, laisser de coté les préjugés et lire. Très vite, on est pris au piège, on n’a meme pas besoin d’essayer de comprendre, on comprend. Le personnage se pose en transparence derrière le fatras des mots. Il est comme un enfant qui n’a pas grandi et qui ne devient pas plus sage avec l’expérience. il est dérouté par le spectacle du monde. Il n’a pas appris le compromis et les bonnes manières, il commet des betises, se révolte contre les injustices, l’hypocrisie, l’indifférence. ce qui lui fait dire ce qu’il pense parce que c’est ce qu’il voit. Avec ses yeux d’enfants et bientot ses désillusions d’adulte, avec la brutalité de langage que mérite la brutalité des situations. Et le fatras des mots représente si bien et avec tant de force ces situations qu’il devient tactile et sensoriel et Céline, enfant, adulte, n’a pas peur de s’en servir. Il n’en fait pas un art, mais une arme de défense. Les médisances de quartiers, les gifles et les menaces des parents, les violences des individus et de la guerre, il n’y a pas de hiérarchie des maux à ses yeux, ou de discrimination, ni de limite à son indignation. Il s’insurge contre les blessures qu’on lui inflige, mais n’y a-t-il pas dans son attitude l’instinct de reconnaitre la faiblesse, la subordination des désarmés face aux velléités des puissants e des bien pourvus? Et de ne pas les accepter ou de les accepter comme entièrement inévitables et odieuses , ce qui revient au meme.
Céline grandit comme une sorte de paria, il le restera jusqu’au bout,. Cela devient meme une sorte de cuirasse dans laquelle il conserve jusqu’à la fin l’innocence et la liberté,. Cela lui permet de dire ce que personne n’ose avec des mots que chacun pense mais que personne n’ose.
Oui, on peut, on doit aimer Céline.

Lecture en cours, quarante ans après la première fois: Mort à crédit. Je vais à rebours, Rigodon, Nord, D’un chateau l’autre et ce n’est pas fini. J’y reviendrai, j’y suis déjà revenue, très longtemps après. Ce ne sont pas des livres que l’on pose et qu'on ouble pour toujours, une fois qu’on les a lus.

venerdì 14 maggio 2010

Terra di Rapina

I politici si consolano, dicendo che gli eventi emersi nelle ultime settimane non sono una novella Tangentopoli, perché le persone coinvolte hanno agito unicamente nell’interesse proprio. Come se fosse meglio e forse per loro lo è. Bisogna dire, tuttavia, che Tangentopoli qualche motivo politico ce l’aveva (magra consolazione, è vero). In realtà, gli eventi a cui assistiamo oggi, che sono tangenti comunque al mondo politico, che lo voglia o no, sono la prima avvisaglia della grande palude culturale che sta a poco a poco ricoprendo il Paese. Il senso di avidità, d’impunità, la scaltrezza dei protagonisti dà un’immagine nitida ormai di quanto l’Italia sia diventata terra di rapina. Ma per i rapinatori, ci vogliono i rapinati e siamo noi, il popolo bue… che paga. Perché tutti questi milioni e miliardi euro non sono nati dal nulla, da qualche tasca saranno pure usciti.
Quanto tempo può ancora durare?

giovedì 13 maggio 2010

Di tutto un po'

Non sono in grado di maneggiare a dovere il sistema complesso di blogspot e non posso mettere su un’unica pagina i post di una giornata. Quelli di oggi su:
Je ne suis pas en mesure de gérer les complexités de blogspot et de mettre sur une seule page les post de la même journée. Ceux d’aujourd’hui dans la rubrique:
I am not able to deal with the complexities of blogspot and post different subjects on the daily page. Please go to:
Lectures: Une opinion sur le beau livre de Jean-Louis Ezine: “les Taiseux”.
Domande: Notizie dall'Iran
Questions - fr: Nouvelles de l'Iran
Questions: News from Iran

Les taiseux

Les Taiseux de Jean-Louis Ezine (Nrf – Gallimard)
L’un des plus beaux livres en langue française que j’ai lu ces derniers temps. Ezine l’appelle un “récit” et je crois comprendre qu’il est en grande partie autobiographique. Il représente pour cela un intérêt particulier. Poétique , d’une écriture élégante, d’un contenu fort et émouvant: l’histoire d’une identité perdue et retrouvée sur la trace de toute une vie. Une histoire aventureuse, ce qui ne gâche rien , en tout cas pour le lecteur d’aujourd’hui, habitué aux rebondissements de toute sorte. Chapeau, Monsieur Ezine.

Nouvelles de l'Iran

La Bbc (www. news.bbc.co.uk/2/hi/south_asia) rend compte du sort des réfugiés afghans executés en Iran. De 4 a 5000 réfugiés ont été arrêtés. Des centaines d’entre eux sont en attente d’être executés. L’Iran nie.
Roxane Sabéri, dans un article du Washington Post d’hier, 12 mai, rapporte que le régime iranien a exécuté 5 activistes politiques curdes, après procès sommaires et tortures. www.washingtonpost.com)
Curdes, afghans, qu’importe, n’est-ce pas?

News from Iran

The Bbc (www. news.bbc.co.uk/2/hi/south_asia) reports on the Afghan refugees executed in Iran. 4 to 5 thousand have been arrested and hundreds are awaiting execution.
Roxane Saberi, in an article in the Washington Post, yesterday 12 May, reports that the Iranian regime 5 Kurdish political activists, after summary trials and torture.
Kurds, Afghans, who cares?

Notizie dall'Iran

La Bbc (www. news.bbc.co.uk/2/hi/south_asia) riferisce sulla sorte dei rifugiati afgani giustiziati in Iran. Tra 4000 e 5000 afgani sono stati arrestati dalle autorità iraniane e centinaia di loro aspettano nel braccio della morte. Teheran nega.
Intanto Roxane Saberi, in un articolo sul Wahington Post di ieri, 12 maggio, riferisce che il regime iraniano ha giustiziato 5 attivisti politici curdi, dopo processi sommari e torture. (www.washingtonpost.com).
Curdi, afgani, importa a qualcuno?

domenica 9 maggio 2010

Federalismo

Il sud Europa è all’Europa ciò che il sud Italia è all’Italia. Il federalismo, se ci deve essere in Europa come in Italia, deve funzionare in entrambi i sensi, altrimenti non regge. Non si può chiedere al nord Europa di mettersi in ballo in tutto e per tutto, senza che il sud Europa faccia uno sforzo serio di rimettere ordine in casa propria e impari a far funzionare le sue cose. Così anche il sud Italia nei confronti del nord. Se questa reciprocità non si realizza concretamente, il federalismo non funziona, diventa un meccanismo perverso, per non dire iniquo. Non per niente, i tedeschi sono molto inquieti stasera, perché gli strumenti salva-euro che il vertice di Bruxelles sta predisponendo hanno per la prima volta una forte valenza politica. E hanno ragione: pure essendo i più virtuosi, sono sulla linea di fuoco, più di chiunque altro, senza alcuna contropartita. Ma quale è l’alternativa? La disgregazione che, in Italia, significa separatismo. Non uno spauracchio, una minaccia reale.

martedì 4 maggio 2010

Tariq Ali Khan - 3

Tariq Ali ascoltava. La tensione era forte. Sulle strade l’oppio e le armi viaggiavano con più difficoltà e se la situazione peggiorava, l’insorgenza correva il rischio di trovarsi in brutte acque finanziarie. Erano scontenti tutti, i capi politici insediati a Quetta, i potenti trasportatori che operavano su una rete ramificata fino in Asia Centrale, in Turchia, sul Golfo, fino in India e in Europa, e anche i contadini che con l’oppio vivevano. Si diceva che gli stranieri avrebbero bombardato i campi pur di togliersi quell’affanno della droga che rovinava i loro paesi. Fu allora, nelle sue visite ai bazar, che Tariq, mescolato alla folla di nullatenenti e disoccupati che da sempre popolavano strade e mercati come questi, capì quanto fosse ampio il supporto della gente agli insorti. Come poteva l’esercito straniero venirne a capo? Sarebbe bastata la potenza, la ferocia o la superficiale bonarietà? E tuttavia, si rese conto che gli umori nella galassia variegata dei capi erano mutevoli, e continue le lotte interne tra diverse fazioni, seppure sotto il cappello della grande Jirga. Il controllo del territorio era ormai assicurato, ma la diversità d’intenti rendeva le cose fragili. La religione stava diventando un pretesto, l’autonomia tribale contava sempre meno, e di più, molto di più contava una pragmatica gestione degli interessi e degli intrecci politici. E lui, umile messaggero, spia, fattorino, stava attento a non fare passi falsi, a non dare la sua opinione, a non dire una parola in più.

A raso terra, anche nel suo campo di appartenenza come in tutti gli altri della stessa dimensione, il dilemma c’era. Chi seguire a questo punto? Spesso incomprensibili gli ordini delle sfere più alte. Ubbidire a quelle strategie di più ampio respiro o farsi carico di azioni che assicuravano l’autonomia dei capi locali e dei loro consigli in miniatura, azioni che avrebbero potuto metterli in prima fila nella ressa d’insorgenti che, di qua e di là al confine, cercavano di dettare la politica internazionale e rivendicavano l’attenzione delle grandi televisioni? Gli anziani restavano legati a doppio filo al Corano. Molti di loro si rifacevano alle proprie esperienze sul campo, negli anni di lotta contro i sovietici e contro i valletti comunisti da loro messi al potere. Erano veterani di una guerra diversa, paziente e di lunga durata, fatta di attese e di agguati cruenti in cui spesso erano mozzate le teste dei soldati nemici, per poi servire da preda nelle sfrenate partite di buzkashi.

In tempi più recenti, dopo la guerra fratricida tra fazioni della stessa fede, ne era emersa una vittoriosa, prendendosi il governo dell’intero Paese. Poi era stata cacciata dalla potente Coalizione, nella scia gli attacchi all’America, ma non era sparita. Era ormai troppo radicata nelle popolazioni e si portava dietro l’adesione dei combattenti di altre guerre. Da anni il mosaico dell’insorgenza si arricchiva di molti nuovi elementi, arabi, turchi, ceceni, kashmiri, fedeli alla bandiera dell’Islam e della rivolta, ma ognuno con propria fisionomia e rivendicazioni nazionali. Forza e debolezza insieme di uno Stato insediatosi nel cuore degli Stati della regione, con la testa dell’idra, dove i leader diventavano sempre più occupati nella gestione del proprio potere. La vera forza vitale erano i giovani, capi e soldati, e avevano fretta non di governare, ma di combattere.

I compagni di Tariq erano uzbeki, yemeniti, egiziani, persino un anglo-africano, immigrati per convinzione o per necessità. I pashtun erano perlopiù ragazzi cresciuti fuori da ogni regola tranne la sopravvivenza, nei campi profughi sul confine pachistano. Avevano scoperto tutti i mezzi per difendersi, riempirsi le tasche di denaro, barattare notizie e strappare informazioni. Maneggiavano armi ed esplosivi con disinvoltura. Premevano per entrare in azione, stanchi di dover fare i contadini di giorno come copertura, nell’attesa che accadesse qualcosa. Pensavano di conoscere meglio la situazione sul terreno, gli spostamenti di truppe, i pericoli incombenti. E sui vecchi avevano davvero qualche vantaggio. Di oppio erano sempre provvisti e, nei vicoli di Quetta, esso era la merce di scambio per acquistare portatili e telefonini ultimo grido con videocamere, relative chiavette per collegarsi a internet e altre, minuscole e potentissime, da portarsi appresso, nelle tasche profonde, per archiviare documenti e foto. Avendo imparato subito a leggere i siti dell’insorgenza, a mandare messaggi e-mail, inviare e ricevere sms, erano molto informati. Per vie misteriose riuscivano a impadronirsi di ogni strumento nuovo con disinvoltura e intasavano l’etere con un chiacchiericcio continuo, in cui ogni parola aveva un significato diverso, ogni nome ne copriva un altro. Senza saperlo, si affrancavano dalle regole ferree della vita tribale e anche dalla tutela religiosa. Era a loro che si rivolgeva la nuova generazione di capi che, per ora, si era solo affiancata a quelle vecchie e manovrava per prenderne il posto.

Tariq era l’ultimo arrivato nel campo e il meno preparato. Intanto, mentre imparava, vedeva scomparire l’uno dopo l’altro quegli addestrati prima di lui: Idris, il nigeriano che si era dato il nome di Abu Taleb, inviato a compiere un attentato contro un aereo di linea in Europa, arrestato, e forse era il più fortunato; Ashraf, figlio di ricchi egiziani che aveva scelto la rivolta ed era morto su una strada di Herat, facendosi saltare in una toyota al passaggio di un convoglio italiano; il giovanissimo Hamza, a lui il più caro - era yemenita e gli aveva insegnato tutto sulle bombe - ucciso dalla raffica di mitra di un soldato straniero mentre correva diritto sul suo vecchio scooter-bomba verso un posto di blocco. Ebadullah, l’afghano dagli occhi tristi che, dopo essersi incatenato addosso una cintura di esplosivi, se la fece esplodere durante un rito sciita in una moschea di Zahedan. Tutti sapevano di questi fatti ma li tacevano per proteggersi da se stessi. Tariq, come gli altri, era triste e si poneva delle domande. Non conosceva le risposte e neppure era sicuro di volerle conoscere. Sapeva solo che si avvicinava il momento. A mano a mano che diventava più bravo, cresceva la sua paura. E lui la frenava, la ricacciava indietro e si attaccava alle sue convinzioni degli ultimi mesi. Da quel cerchio infernale che gli si era stretto intorno non poteva uscire. Non c’era modo. E quando qualcuno dei suoi amici gli sussurrava “hai paura?”, lui rispondeva freddamente “si, ho paura, fa parte del nostro lavoro”. Era un modo per sdrammatizzare.

martedì 20 aprile 2010

Tariq Ali Khan - 2

Il funzionario di polizia all’aeroporto gli faceva delle domande in pashtun. Tariq balzò fuori dai suoi pensieri con il cuore in gola e raccontò la storia della sorella. Doveva giustificare la sua presenza nel paese.

L’altro lo squadrò, scrutò di nuovo ogni pagina del passaporto, scosse la testa un paio di volte. Gli fece qualche altra domanda, volle sapere quanti soldi aveva con sé. Cinquemila euro? Perché così tanti? Cosa aveva da comprare? Volle vederli. Tariq aveva già capito. Tirò fuori il portafoglio. Niente di cambiato, insomma. Da qualche parte, nel profondo, scattò in lui un sentimento di orgoglio di non vivere più in posti come questo, ma lo zittì subito. Ormai non sarebbe tornato indietro e doveva regolarsi.

Dormì in una locanda del bazar. Mangiò per colazione un pezzo di pane e formaggio con un bicchiere di tè bollente, sciogliendo lentamente una zolletta di zucchero fra i denti. Avrebbe voluto restare lì seduto, nel piccolo caffè all’ingresso del bazar, ad ascoltare i discorsi degli avventori che parlavano di guerra, di soldati stranieri e di fatti personali, nella lingua pasthun che era anche la sua. Ma non poteva, c’era un autobus da prendere per andare verso sud, una carcassa di autobus che avrebbe aspettato a lungo di sicuro, con fiancate dipinte e porta-pacchi straripante. Il deserto e le montagne sarebbero sfilati davanti ai suoi occhi, tenendolo sveglio a dispetto del posto scomodo, dell’odore di corpi pigiati e non lavati. Nessun rimpianto: già sprofondava nel passato remoto, già si era lasciato dietro tutti gli orpelli occidentali. Niente completo e cravatta, una lunga tunica bianca sopra i pantaloni larghi, un gilè di lana grezza, un copricapo mussulmano appoggiato sul cranio, la barba che cominciava a infoltire, non ancora a crescere. Tempo un giorno, l’abbigliamento comprato nel bazar si sarebbe sgualcito e, strusciando qua e là, avrebbe perso il biancore del nuovo, le scarpe senza calzini che gli tormentavano i piedi si sarebbero impolverate in modo irrimediabile. Più nessuno avrebbe posato su di lui uno sguardo indagatore e questo lo rasserenava. I posti di blocco erano ovunque, gli stranieri erano sospettosi, facevano scendere tutti per meglio perquisire l’autobus. Ma nell’entroterra brullo e spopolato, spesso i soldati erano afghani e si stancavano di tutti quei poveracci scalcagnati come loro, spesso orbi o mutilati. Facevano presto e se non trovavano niente, lasciavano perdere. Era impossibile vedere tutto, controllare tutto e passato l’autobus, si mettevano a fumare sul ciglio della strada in attesa del prossimo, in attesa di un attentato che sarebbe arrivato prima o poi e che non erano in grado d’impedire. Neanche si accorsero di Tariq, dei suoi soldi, della sua faccia pachistana. Il paese era un crogiuolo di razze le quali, anche se nemiche, erano familiari. Tariq osservava tutto, sospettoso pure lui, e concludeva che non era certo difficile piazzare una bomba in queste condizioni e fare saltare tutti quegli sfaccendati di soldati, ma a che pro? Altri erano gli obiettivi. Zittì di nuovo i suoi pensieri, non spettava a lui dare giudizi o prendere decisioni. Lui era venuto a imparare e obbedire, glielo avevano ripetuto tante volte a Milano, dentro e fuori la moschea.

Presero verso sud-est, sull’altopiano infinito, si avvicinarono di nuovo alle montagne che fino allora orlavano l’orizzonte. Le facce erano diverse, numerosi sempre i pashtun che vivevano di qua e di là al confine, ma anche baluch dai grandi baffoni e dai pantaloni alla zuava. Il motore dell’autobus fumava, ogni tanto una gomma schiantava e bisognava fermarsi a farla riparare in qualche villaggio remoto. Tutti giù ad aspettare su un piazzale, o a giro a bersi un bicchiere di tè, nessuno si spazientiva, nessuno imprecava, i bambini schiamazzavano e correvano felici. Ad alcuni mancava una mano o un piede, per via delle mine, e non appena fermo l’autobus, erano i primi a scendere, abbandonando la stampella per correre a saltelli dietro al pallone. Le donne si accovacciavano in vista, allargavano i burqa come una tenda e sotto facevano la pipì. Mancavano ancora ore di viaggio, ma oltre le montagna c’era Quetta, c’era il suo paese e c’erano coloro che lo dovevano ammaestrare.

A Milano, gli avevano spiegato molte cose che, per vie misteriose, non gli risultavano nuove. Sul viaggio, quasi niente: un numero di telefono a Kabul dal quale ebbe un altro numero di Kandahar, senza dettagli, senza nomi, e così via fino al confine. Meno sapeva, dicevano, e meglio era. Tanto avrebbero organizzato tutto loro, nel più infimo dettaglio, e così avvenne. E tuttavia, Tariq Ali era riuscito a carpire qualche indizio da altri giovani come lui, nella moschea. Non sapeva se fossero solo voci, ma un quadro sfuocato e allo stesso tempo plausibile era uscito fuori dai pochi discorsi sussurati. Quanto bastava a farsi un’idea. Quel percorso verso sud-est era l’asse più importante, ormai, lungo il quale correvano i carichi di armi e di quel bene prezioso che era l’oppio e, a ritroso, dei guadagni enormi che ne scaturivano. Tutto in pick-up scalcagnati, carrettini, a dorso d’asino … L’importante, di volta in volta, era arrivare in fondo al viaggio senza intoppi. Quetta, la sua città natale, era il centro di smistamento dove s’incontravano le parti interessate e, anche in questo, vi era una specie d’inevitabilità nell’incontro tra il suo destino personale e la sopravvivenza della sua gente. Resistere, questo era lo scopo finale, resistere all’annientamento delle proprie usanze e della propria causa. Non era un diritto di tutti i popoli? Perché e in nome di che cosa veniva loro negato? Tariq Ali era convinto ora che la sua scelta fosse giusta e guardava alla sua esperienza in Italia come un tradimento da riscattare.

Resistere era meno difficile di quanto sembrava. I capi non avevano detto quasi niente e restavano sul generale. E tuttavia alcune cose avevano colpito Tariq e lo avevano fatto riflettere. Le forze occupanti, grandi per potenza militare e finanziaria, erano asserragliate nelle loro mega-fortezze, tanto più imponenti quanto più vulnerabili. Non capivano niente dell’arcipelago tribale formato dai nemici e davano alle sue provocazioni risposte massicce, quanto mai prive di agilità e quindi di efficacia. Faceva ridere la cecità della Coalizione internazionale rispetto alla realtà sul terreno, pareva quasi incomprensibile ma di sicuro era un pegno di successo per gli insorti. Non capivano, americani, australiani, italiani, che l’Afganistan aveva vinto tutti gli occupanti precedenti quasi senza armi e senza mezzi, solo con la sua capacità di sacrificarsi. Milioni di persone erano morte per questa causa, in passato, e gli occupanti erano sempre stati cacciati. Ora cercavano di darsi sottili strategie basate sui loro principi di gente civile. Ma l’Afganistan non voleva essere aiutato, ricostruito, protetto, rincivilito, voleva solo essere lasciato in pace, libero di risolvere i suoi problemi e di vivere la vita secondo le regole secolari della sua variegata gente. Aveva troppo sofferto per aver paura della sofferenza. No, la sofferenza non era il suo problema, per questo avrebbe resistito anche questa volta, con l’aiuto di Dio. Lì era stata alzata la bandiera che ora sventolava anche in Pakistan, in Iraq, in Palestina, in Iran…

Il lungo nastro di asfalto grigio. Tutto intorno, il deserto, la polvere spaventosa che penetra in ogni angolo dell’autobus, si annida nei vestiti, nei capelli, sulle sopraciglia, nel naso e in bocca, se non vi si pone una pezza. Interminabili ostacoli. Soldati stranieri con i posti di blocco, tutti con gli occhialoni scuri a nascondere il viso, le stesse bardature, le stesse macchine di morte, e gli sminatori e ovunque bambini che corrono qua e là a curiosare a loro rischio e pericolo, specie quando passano le colonne degli invasori, proprio per via delle mine e delle macchine degli attentatori ormai comunissime, imbottite di bombe, che stanno in attesa dei mezzi militari sul ciglio della strada, americani, qui canadesi, altrove inglesi, italiani o australiani.

Un unico colore. Le basse case di fango in cortili di terra battuta, tutte uguali, che rendono il paesaggio tutto uguale, grandi pianure desertiche orlate di montagne frastagliate o appena visibili, azzurrine nella lontananza. Mucchi di rocce che somigliano a dinosauri adagiati lì dopo milioni di anni. E i bambini, sempre loro, che sorgono ovunque dal nulla, da villaggi così raso terra da essere invisibili, si fermano stralunati e poi scoppiano in grida assordanti. Si avvicinano ai soldati, ci parlano in chissà quale lingua, guardano soprattutto le armi, affascinati. E chissà cosa capiscono, cosa imparano, niente o meno di niente, oppure tutto. La guerra.

Tariq passò nel dormiveglia il tratto tra Kandahar e il confine, 100 km o poco più, fino a Spin Boldak che era sempre in Afganistan. Lì doveva cambiare, e un pò più in là cominciava il pericolo. Il villaggio che doveva raggiungere era nelle vicinanze di Chaman, sulla frontiera, dalla parte pachistana. Di qua, di là, non c’era differenza. In Pakistan, proprio in quelle zone, la Coalizione da tre anni snidava gli insorti a furia di bombardamenti, radendo al suolo interi paesini, rendendosi nemica tutta la popolazione che non capiva e non poteva capire.
Tariq non si chiedeva il perché delle cose. Adesso che si era addentrato nel territorio della guerra, ci si era subito assuefatto. Provava a dormire ma sentiva i discorsi degli altri passeggeri: se questi sono gli amici, meglio i nemici... Almeno parlavano la stessa lingue, credevano nelle stesse cose, si comportavano allo stesso modo. Non erano difficili da capire come quest’altri con i loro sacchi di grano, gli elicotteri con enormi cannoni appesi, il latte in polvere, i vaccini. Tariq non provava indignazione. Gli sembrava che ogni cosa fosse al suo posto, gli amici e i nemici. Questi erano da combattere e lui era venuto apposta.

Una calca disordinata circondava il posto di confine. Ci voleva pazienza. Tariq ne aveva a iosa, sempre silenzioso e in ascolto. Dentro l’autobus le cose erano diverse, nelle ore di viaggio la gente finiva per parlare più liberamente. Qui, in prossimità di poliziotti e soldati, taceva. Le facce dei viaggiatori diventavano le solite maschere indecifrabili di poveracci, analfabeti, innocenti disarmati. Gli uomini si nascondevano dietro il fumo delle sigarette, le donne dietro la griglia impenetrabile del burqa e, senza saperlo, erano solo gli occhi dei bambini, scuri come acqua in fondo a un pozzo, a raccontare l’inquietudine nel cuore,l’incertezza per un futuro inesistente, la paura del presente. Sentimenti comuni a tutti. Singoli individui, famiglie, etnie… Comunque, Tariq era ormai in territorio conosciuto. Il posto di confine non lo spaventava. Non aveva bisogno delle istruzioni altrui. Lungo una frontiera che non esisteva per i pashtun, suo padre aveva praticato il contrabbando per una vita, portando di qua e di là ogni genere di bene:lavatrici, medicinali, coperte, vestiti, persino mutandine di pizzo rosso molto erotiche che arrivavano puntualmente con gli aiuti internazionali ai profughi e che le donne amavano portare nei fondali segreti del burqa. E in quelle scorrerie di suo padre, legali e legittime perché erano la principale attività economica dell’area, Tariq era cresciuto.

Nelle pieghe delle montagne dopo Chaman, vi erano dei villaggi talmente fusi nel paesaggio desertico che probabilmente risultavano invisibili dall’alto, forse persino dai satelliti. E lì si erano insediati i seguaci, per lo più pashtun, degli estremisti islamici. Tariq raggiunse uno di questi villaggi con un’ape scalcagnata, il cui proprietario gli era stato indicato dai suoi padroni, in uno dei loro soliti messaggi telefonici cifrati.

Era un campo di addestramento a tutti gli effetti, anche se piccolo e scomodo a causa delle montagne sovrastanti. Si presentò cappello in mano, ma sapevano del suo arrivo. Lo aspettavano e fu ricevuto dignitosamente con lunghe sedute intorno a un bricco fumante di tè. Erano cortesi, seppure facessero approfondite domande sul suo passato. Ligi agli ordini ricevuti, sì, però da gente tosta e legata alla propria autonomia. Volevano farsi l’idea loro, senza tralasciare un attimo la tradizionale ospitalità. Tutte cose che Tariq riconosceva d’istinto, per cui non s’innervosì, rispose in modo pacato e veritiero.
Lo misero in addestramento e non fu facile. Tariq Ali era, dopotutto, abituato agli agi occidentali, appena un po’ smorzati dalle ristrettezze delle ultime settimane. Non aveva mai impugnato un’arma, non era molto bravo nel combattimento corpo a corpo e nella pratica del tiro franco. Imparò velocemente. In qualche modo doveva averlo nel sangue o forse era la sua vigorosa gioventù ad avvantaggiarlo. Era felice, provava un senso di appartenenza. Diventò come i suoi compagni, ruvido, semplice, di poche parole, ma di una determinazione paurosa. Prese anche a fumare come loro e a masticare il betel. Lo mandarono in ricognizione, nei mercati dei dintorni, nei caffè. Capì subito che quella era una prova che gli imponevano. Volevano vedere se aveva le doti necessarie di mimetizzazione, la capacità di intrufolarsi nei punti nevralgici, di portare indietro informazioni attendibili e per loro essenziali nel mosaico dell’insorgenza. E lui andò più volte, sempre a piedi o in autobus, invisibile, appiattito sull’ambiente con i suoi indumenti polverosi, le mani callose, le scarpe piegate dietro come vecchie ciabatte.