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mercoledì 9 ottobre 2013

l'impazienza di Barisoni


Sebastiano Barisoni dimostra, nel suo programma di Radio 24 delle 17.00,  una grande irritazione verso coloro che sostengono di voler uscire dall’Euro.  A parere mio, questi tanti noiosi non vogliono uscire dall’Euro, operazione praticamente impossibile per le sue tante complicazioni e ramificazioni. Vogliono semplicemente, come me, uscire dall’Europa, punto.  La cosa è semplice così.  L’Europa ci sta strangolando con una burocrazia incomprensibile e deleteria che è la causa primaria del declino del continente.

L’Europa vuole la serietà finanziaria e fiscale, la solidarietà verso gli inermi, la giustizia giusta, il lavoro garantito, la sicurezza alimentare, nelle imprese, il rispetto dell’ambiente e della democrazia, la fine delle guerre, ma non sembra in grado di fare niente.  Resta a oggi un puzzle incompiuto – e l’ho scritto altrove – di  misure incomplete, mai portate fino in fondo, ma assolutamente rigide che si tramutano a livello nazionale, regionale, provinciale – almeno in Italia - in altrettanto regole e misure, potenziate ancora in senso restrittivo, per non dire repressive.  La bella figura non se la rifiuta nessuno, soprattutto lo Stato italiano che dimostra da tempo di non aver alcun progetto in nessuno dei casi suddetti.  Meglio la burocrazia, tanto più se alimenta un vivaio di burocrati infiniti e ingordi.

Io produco il vino.  Mi dicono tutti “che bello, sei in campagna, ti godi la vita”.  La mia risposta è “No.  Io la campagna la vedo dalla finestra del mio ufficio, non altrimenti.”  Il resto del tempo lo passo a riempire comunicazioni e formulari per i quali  mi devo districare nelle leggi, proroghe, deroghe istituite dall’Europa, e ampliate dallo Stato italiano in un linguaggio incomprensibile che rimanda a Reg. tal dei tali,  al DDl tal dei tali, all’articolo tal dei tali, senza illuminarci, senza specificare i contenuti, per cui bisogna andare a cercarseli, rischiando di perdersi, o facendo costosi corsi di aggiornamento i cui gli stessi oratori spesso confessano di capirci poco o nulla.  Perdita secca di tempo e abisso di incertezza in cui non si possono che annidare gli sbagli, le scorrettezze, per non dire le illegalità.  Immagino cosa sia per argomenti assai più complessi come la finanza, la fiscalità la solidarietà, la giustizia ecc ecc ecc.

Barisoni , ti voglio bene, ti ascolto tutti i pomeriggi molto volentieri.  Siamo sulla stessa lunghezza d’onda liberale, Ma devi prendere coscienza di questo problema.

mercoledì 28 agosto 2013

ogni tanti decenni...


Ogni tanti decenni - chissà perché - c’è qualcuno – chissà chi – che butta un sasso o meglio, un masso nella grande palude in cui si dibattono gli uomini da quando la storia è  storia.  I cerchi sono grandi all’inizio e ci vuole del tempo perché si ristringano e, quando arrivano al focolaio centrale, è guerra.  Così sono cominciate le guerre del XX secolo, preparate da lontani, quasi insensibili,  segni premonitori.
Il XX secolo è ricco di esempi degli orrori che produce la guerra,  sono lì a disposizione di chiunque, tra i più brutti della storia dell’umanità:  la Shoah, piuttosto che Hiroshima e Nagasaki, piuttosto che My Lai, Pol Pot, Halabja, Sbrenica,  9/11, e i massacri in Africa e altrove.  Oggi la Siria,  con la foto su tutti i quotidiani mondiali,  di un neonato in mezzo ai tanti corpi delle vittime dell’attacco chimico.  Spine non rimovibili nel cuore. Fotografie che rimangono scolpite nella mente per sempre. Si potevano evitare o fanno parte della natura connaturata dell’uomo? Della sue specie unica?
E’ una domanda che chiede una risposta.  Non è di natura etica, piuttosto di sopravvivenza bell’e buona su questo nostro pianeta sublunare, pieno di armi, di tecnologie  e di interessi contrastanti di tutti tipi.  La risposta non la possono dare i tiepidi rappresentanti dell’Occidente e tanto meno gli arrabbiati del mondo islamico dove la cultura della morte è diventata prevalente.  Il cancro  si estende a vista ormai, per ignavia da una parte, per fanatismo dall’altra.  Dov’è la soluzione?
Essendo di formazione storica, sono stata sempre pragmatica.  Ho sempre pensato che la Storia è un tessuto di tragedie e che le guerre finiscono per esaurimento, con vincenti e perdenti, non necessariamente dalla parte del giusto, né gli uni né gli altri.  Ma – da stupida – mi sono sempre chiesta se gli uomini non possano mettere da parte la loro volontà di potere – economico, finanziario, religioso o quant’altro – e ragionare, semplicemente ragionare.   Forse, bisogna dirlo, sono smentita dal fatto che l’Occidente, pur avendo fatto enormi progressi in questo senso, non ha fatto scuola. Ha decolonizzato a enormi spese, ma non è bastato per la pacificazione.  Il problema anche in Occidente si è fatto più perverso e invasivo, e ha inquinato le sue tradizioni e il suo tessuto sociale, così come i suoi invadenti costumi non hanno fatto altro che infiammare le tradizioni specifiche - traviandole - del suo avversario principale che è l’Islam.

 Scontri inevitabili.  Pare di sì, a questo punto.  Scontri di civiltà? Mah... Sicuramente scontri di cultura, ma neanche questo è una ragione sufficiente.  Oggi, ho avuto l'impressione che siamo arrivati al focolaio centrale dei centri concentrici dove comincia la guerra. Fa paura.

sabato 1 giugno 2013

internet, che passione...







In inglese si dice the Net, in italiano la Rete, nome appropriato come non mai.  In questa rete siamo caduti tutti, prigionieri per sempre.
A suo tempo, alla fine degli anni Novanta, quando scrivevo il Libraio di Amsterdam, Internet mi è stato utile.  Ci ho raccolto molte informazioni di corredo, mai quanto quelle che mettevo insieme in lunghe e felici ore alla BNF o dalla lettura dei molti libri che compravo. 
E’ finita da tempo l’avventura del Libraio e, oggi, internet con tutti i suoi social networks, è diventato per me un luogo di follia. Mi manda in crisi.

Con Facebook dove sono iscritta da anni, non riesco a cavare un ragno dal buco, semplicemente perché non ho mai avuto il tempo di acquisire la giusta expertise.  Non ricordo la password, la cambio, poi non mi riconosce più nessuno, non riesco a commentare, a rispondere, non so come nascono queste amicizie che mi vengono richieste  da persone sconosciute, non vedo le foto che mi mandano i miei figli e nipoti, i links interessanti che mi mandano gli amici.  Scoraggio tutti.   Lo stesso vale per Linkedn dove sono rimasta iscritta non so come, forse grazie a qualche amico/amica che me ne vantava i vantaggi professionali.  Anche lì, quantità di chiamate e d’inviti ai quali non posso rispondere 1) perché non so chi sono, 2) perché la password mi sfugge e se la cambio, non mi riconoscono loro.  Poi ci sono le offerte di servizi, le richieste di coordinate bancarie per vincite fasulle, e una quantità impressionante di spam in cui i messaggi legittimi e utili  annegano per sempre.

Ultimo in crono, lo spam di “referal” , nella fattispecie un gruppo di indiani (veri, che fanno anche gli indiani) di Mumbai, titolari di siti pornografici.  Appaiono con un nome altisonante e attraente sulle stats:  Topblogstories, al quale è difficile resistere. S’intromettono ripetutamente nel mio blog come lettori.  Ho avuto la curiosità di vedere chi sono.  Fortuna che non ho cliccato sul link che appariva nelle mia stats.  Gli ho cercati su Google, dove sono venute fuori pagine e pagine di proteste.  Un bloggista italiano in Tailandia è riuscita a scovarne persino la foto di gruppo.  La spiegazione che danno nei forum è che questa gente riesce a incrementare i collegamenti e le capacità di acquisire pubblicità a pagamento sui propri siti ogniqualvolta un bloggista clicca direttamente sul loro link.  Nessuno sa dire con certezza se questi indiani possono fare danni.  Cose che, neanche nella più lontana immaginazione, potevo immaginare.
Internet mi diverte e mi interessa a volte (wikipedia), le più volte mi esaspera.  Ormai mi ci sono impigliata senza scampo. Non c'è niente da fare.


martedì 26 marzo 2013

La pietra tombale del governo Monti, ossia i due fucilieri





Niente è apparso più ridicolo e più disdicevole nelle azioni del governo Monti come la vicenda dei due marò italiani, soldati ineccepibili che hanno sempre ubbidito agli ordini:  Tornate per Natale, ritornate là , tornate per le votazione, restate qui (gesto di timidi che, d’un tratto, hanno preso il coraggio a due mani  in modo aggressivo), poi repentinamente no, tornate là…  Gli indiani hanno detto che non rischiate la pena di morte, hanno dato garanzie.  Non è vero niente, non hanno dato alcuna garanzia.  E seppure fosse vero:  la pena di morte no, magari l’ergastolo (possibile), oppure 30 anni (probabile).  E se poi dessero loro solo dieci anni, il governo Monti si compiacerebbe:  questi indiani sono proprio bravi, solo dieci anni…  In un carcere indiano, rendo l’idea?

Dieci anni per aver difeso la nave in acque internazionali infestate da pirati (i quali non ce l’hanno scritto in fronte di essere pirati).  Bella ricompensa.  Oggi sono prigionieri nell’ambasciata italiana, extraterritoriale, insieme all’ambasciatore, ostaggio dell’India.  Cose mai viste…

Bé, Monti ha sempre dimostrato di essere il primo della classe quanto a regolamenti nazionali e UE.  Compassato, sicuro di sé.  Ma è sempre stato un semplice valletto al servizio non dell’Italia, ma della UE.  Quella sua boria di uomo prescelto, però , si è dissolto nel ridicolo dei suoi risultati elettorali (e chi se ne frega), ma ora in questa tragedia.  Potrà andare a raccontarla in parlamento, ma i fatti parlano chiaro.  I suoi atti sono degni degli “ignavi” di Dante e oggi pesano come una pietra tombale sul suo inutile e dannoso governo. Nessun italiano potrà perdonare la vicenda dei marò, comunque finisca, e non finirà necessariamente bene.

venerdì 15 marzo 2013

habemus papam




E’ venuto dall’altro capo del mondo, Papa Francesco.  Sulle prime, nella lunga attesa di vederlo apparire al balcone di San Pietro, ho temuto che Nanni Moretti avesse fatto scuola.  Poi è apparso quest’uomo, timido, quasi impacciato, uno sconosciuto per la moltitudine.  La sua breve presenza è stata già illuminante perché poco mediatica, assorta nella preghiera insieme ai diocesani ai quali è stata chiesta la benedizione al nuovo vescovo di Roma. 

Non se ne sapeva niente.  In un baleno, i media ne hanno fatto il ritratto:  gesuita, seguace di san Francesco nell’umiltà e nella povertà.  La cosa mi ha colpita.  Ho sempre avuto una certa simpatia per i gesuiti, ordine dedito allo studio e alla pedagogia sin dalla fondazione, poi trascinato per i capelli dal Sant’Uffizio sulla strada della repressione.  Universalmente detestati in seguito, da gallicani, devoti di ogni risma, giansenisti, protestanti, e spesso osteggiati dal papa al quale riconoscevano totale obbedienza, hanno avuto un percorso difficile nella società europea.  Spesso sono stati cacciati, ma sono sempre tornati a riprendere la loro vocazione di studio e d’insegnamento, secondo schemi rigorosi e innovatori.  Alla scienza hanno dato matematici, astronomi, meccanici, sono stati evangelizzatori attenti, rispettosi e insieme curiosi dei costumi dei paesi lontani in cui operavano.

Il nuovo papa gesuita ha scelto il nome Francesco e tutti se ne sono stupiti.  In realtà molto in comune ha sempre avuto la spiritualità gesuita con quella di Francesco, nel segno dell’umiltà, della povertà, della carità, dell’intensa preghiera e dell’attenzione verso gli smarriti.  Questo papa non ha lanciato un ponte tra i gesuiti cattivi e i francescani buoni, ne aveva riconosciuto le affinità reali da tempo, prima ancora di essere eletto. Quindi, c’è poco da stupirsi.

Piuttosto c’è da restare ammirati dal fatto che i cardinali del conclave, questi vecchietti stizzosi e partigiani siano riusciti a eleggere un papa così singolare in solo due giorni.  Contro loro interessi specifici e ineludibili, alla fine hanno fatto prevalere la scelta del bene comune, ossia della Chiesa.

C’è una lezione da imparare qui, volendo.  Sono in grado i politici italiani, di destra, di sinistra, grillini o altri, a lasciare da parte le loro brutali risse per far prevalere il ben comune?  Speriamo, speriamo davvero.


venerdì 23 novembre 2012

La stupidità

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Lo dimostra la Storia.  Gli uomini non hanno mai perso l’occasione di farsi la guerra.  Non ci sono quasi mai state guerre giustificabili, giacché il potere, o la dominazione di qualcuno su qualche altro non è una giustificazione, per ciò che la guerra comporta.  Non ci sono mai state neanche guerre inevitabili, tranne quella contro Hitler.  Ci sono solo guerre cruente che fanno vittime innocenti.  Oggi in Siria, peggio ancora, giacché è fratricida, un’orgia di distruzione sul proprio Paese da una parte e dall’altra, senza un esito prevedibile, se non altra distruzione e altri morti che diventano nuovi pretesti.  Oggi in Palestina.  Dove nessuno, proprio nessuno, ha ragione, né i Gazawiti né gli Israeliani.  Stanno da una parte e l’altra su posizioni irreducibili, e di lì non si va da nessuna parte.  Si può continuare all’infinito a mandare missili e bombe sul capo dei nemici, finché non vincerà qualcuno, e perderà qualcuno, e comunque finché da entrambi i lati si ritroveranno seduti su un mucchio di macerie.  Forse allora si chiederanno se ne valeva la pena.  O più probabilmente, no.  Riprenderanno fiato per  un po’ e ripartiranno come prima.  Uno scenario già stra-conosciuto.. 
Un MP, di origine israelita del parlamento britannico ha fatto un’appassionata arringa su “Israele che si comporta come i nazisti e, sin dalla nascita pratica il terrorismo.”  Non ho capito la sua rabbia e il suo stupore e le sue parole mi sono sembrate frutto di una elucubrazione passionale, poco ragionevole. Condivido la sua pena per i tanti morti palestinesi di questi giorni.   Ma c’è da fare una messa a punto:  hanno cominciato loro a mandare i missili iraniani in capo a Israele alla quale si rimprovera, in sostanza,  meno morti.  Ma se in missili avessero colto nel segno, i morti israeliani sarebbero stati molto di più e, a quanto capisco, nessuno li avrebbe deprecati.   Israele avrebbe dunque la colpa di avere risposto con efficacia!  Roba da matti.
Poi c’è da dire che dopo più di sessant’anni dalla nascita,  Israele è ormai una nazione come le altre, il suo popolo come tutti gli altri.  La vera domanda è:  perché dovrebbe essere migliore?  Aveva forse il dovere di  imparare la mansuetudine più di altri popoli dopo la Shoah, proprio dopo quella? La natura umana è sempre uguale a se stessa, anche per gli ebrei.  Perché dovrebbero gli israeliani  essere meno stupidi, e i loro politici meno vanitosi, meno ambiziosi,  più lungimiranti di quelli della Siria, del Congo, del Mali?  Qualcuno di loro: Rabin che è stato assassinato,  Ariel Sharon, il massacratore di Sabra e Chatilah,  che all’avvicinarsi della morte ha fatto il suo bilancio personale, e non solo, rendendo Gaza ai palestinesi.  Mosche bianche, e non solo in Isaele.  Ce ne sono poche nella storia dell’umanità.  Ma dire che Israele = al nazismo, mi sembra un po’ grossa.  Dal 1948 non ha fatto altro che difendere  il proprio Paese,  regalatole dalla cattiva coscienza universale, e lo ha difeso con tutti mezzi disponibili e con un certo doloroso successo.  Non doveva farlo? Dipende sempre dai punti di vista:  chi sono i “freedom fighters”, chi invece i “terroristi”?  Ma forse, agli occhi dei tanti, non aveva diritto di difendersi, essendo di radice ebraica, e di fare errori come tutti (le colonie sulla West Bank).    Forse, fino alla fine del mondo, prevarrà questo pregiudizio per cui gli ebrei sono diversi e non hanno il diritto di essere come tutti,  stupidi, violenti, prevaricatori.
Meglio per tutti sarebbe che non lo fossero loro e neanche gli altri, meglio per tutti se si mettessero intorno a un tavolo a ragionare e a dirimere le differenze.    
E pensare che in questi anni, in sordina, si stavano creando dei legami basati sulla cooperazione.  Israele stava diventando cliente della nascente industria palestinese e qualcuno in Israele si spendeva personalmente  a favore delle famiglie palestinesi, private di cure ospedaliere a causa dei numerosi ostacoli militari sulle strade posti dallo stato ebraico.   Si può, se si vuole, trovare un terreno comune per intendersi.  Basta ragionare.

martedì 3 luglio 2012


L’imponderabile
Ho sempre temuto l’imponderabile
L’imponderabile si presenta come un insieme di circostanze ineludibili e concomitanti, fatte di irrazionalità, d’imprevedibilità e/0 di leggerezza che si mette in atto in un evento o in una mente, cambiando il corso della storia o di una o più vite vita umane.  E’ più forte del destino ineluttabile, come viene percepito nella cultura popolare, ne diventa  detonatore, quando entra in gioco la distrazione dell’uomo.


L’incontro tra un piccolo e mediocre giovane -  senza un soldo e senza un futuro nell’Austria alla vigilia della prima guerra mondiale, che passa il tempo a disegnare i palazzi della sua città ma non ha abbastanza talento per imporsi - e qualche ebreo hassidim in caftano, con il naso adunco e i lunghi riccioli, figure che spiccano nella società austriaca, ne sono un  elemento tanto estraneo da essere considerato pericoloso.    Poteva non avvenire.  E’ avvenuto con le conseguenze che sappiamo.  Avete indovinato di chi si tratta.


La Bastiglia nel 1789.  Non custodiva quasi nessun detenuto.  Era una fortezza in disarmo.  Ma nell’immaginario popolare (più che in quello nobiliare, seppure i nobili fossero i frequenti residenti della Bastiglia), rappresentava la forza negativa del dominio reale, sin dai tempi delle “Lettres de Cachet” di Luigi XIV.   La presa della Bastiglia fu un evento simbolico, senza alcuna valenza prammatica. Eppure fu il momento iniziale di una rivoluzione.  Poteva non accadere, non era necessario che accaddesse. Ma perché è accaduto, tutta una lunga storia, dalla Rivoluzione francese alla marxismo, al comunismo, è ugualemente accaduta.  Con i risultati che sappiamo.


Una catena di piccoli errori di manutenzione, non necessariamente voluti o in mala fede o commessi per motivi strettamente economici, vista la rigida regolamentazione nella UE e negli Stati nazionali:  distrazioni che si esplicitano nella tragedia di Viareggio di tre anni fa.  Perché ?


Un cd maneggiato con uguale distrazione da un autista alla guida di un pullman carico di bambini in un tunnel.  Un persona sicuramente professionale e attentissima.   Lo schianto c’è stato, imprevedibile e devastante.


Di esempi così che ne sono tanti.  Come fare a disarmare l’imponderabile?  Non si può.  Neanche le predizioni di Nostradamus possono niente contro l’imponderabile.  Solo la saggezza dell’uomo, quando  c’è, può metterla in conto, una percentuale sconosciuta delle sue azioni le quali non sono mai senza conseguenze.    Le azioni umani non sono mai senza conseguenze.  Questa è la lezione da trarre, e la può trarre un manutentore, un autista, un futuro dittatore sempre che ne abbia voglia, un uomo qualsiasi.  Basta che lasci la sua casa al mattino pensando “non voglio fare danno a nessuno”.
   

domenica 10 giugno 2012



Non è un sudoku

Non si  può andare a tentativi, cambiando i numeri qua e là per fare tornare le righe e le colonne.  Intanto, perché così non tornano mai.  Chiunque fa i sudoku lo sa.  Non si può mettere a casaccio un tanto percento in più sulle accise o sul prezzo benzina o sull’IVA, un tanto di IMU in più sulla prima, la seconda, la terza casa (quanto, non lo sa ancora nessuno).  Ci sono dei parametri inamovibili:  il debito, il PIL, la recessione, la disoccupazione, e più in generale il disorientamento, la povertà, la disperazione dilagante.  Sono la conseguenza, non dell’incapacità e della voracità delle aziende, non della disonestà generalizzata dei contribuenti, bensì del fatto che la classe politica (in disarmo), la burocrazia (ridondante e dilagante), e il governo tecnico ( a questo punto inutile) si accaniscono a giocare a questo sudoku infernale, senza riuscire a infilare a diritto le righe e le colonne. Così i conti non torneranno mai e le tasse continueranno ad aumentare.  Non c’è un sistema migliore di governare un Paese?

giovedì 31 maggio 2012



Hieronymus Bosch, nostro contemporaneo

Un personaggio difficile da collocare, da circoscrivere, da capire, Hieronymus Bosch. 
Guerra, eresia, esoterismo, occultismo, alchimia, stregoneria, grande libertà, grande trasgressione alla quale risponde già la repressione pre-tridentina:  si conoscono bene ormai  gli elementi iconologici che caratterizzano la pittura di Bosch e lo rendono formalmente testimone della cultura del suo tempo.

Meno leggibile, invece, è il quadro iconografico, seppure si rifaccia agli elementi di cui sopra.  Come una specie di universo fine a se stesso, esso è confinato – si fa per dire – e trova la sua compiutezza solo nell’immaginario del pittore, con pochissimi e stilizzati richiami alla realtà  Ciò che interessa Hieronymus Bosch alla fine, non è la natura,  ma  la natura umana.  Ne indaga l’intera gamma di virtù e soprattutto di vizi, dispiegandola in una fitta schiera di simboli, mai identici a se stessi, rivisitati e arricchiti di connotazioni e sviluppi singolari. Una classifica in piena regola, le cui categorie sono in costante evoluzione.   I temi più importanti di natura religiosa finiscono spesso per diventare pretesto a ben altro.


C’è un’interessante disparità qualitativa e quantitativa.  Il quadro dei sette peccati capitali, o il pannello dello Inferno musicale nel Trittico delle Delizie, non ha alcun pendente in rappresentazioni delle virtù teologali (che appartengono a Dio) e neppure in quelle cardinali (che appartengono in via di principio all’uomo).  Ovunque, la virtù appare assediata, (Sant’Antonio, Ecce Homo, le controverse Nozze di Cana)  fragile di fronte alla prepotenza  del vizio, sempre sul punto di essere sconfitta.  La virtù, insomma,  è poca e sofferta, ed è rappresentata in modo  spoglio e piuttosto statico, mentre il vizio è tanto e trionfante, nella sua perenne e movimentata eccitazione .  L’universo di Bosch racchiude il disordine sulla Terra, forse più interessante ai suoi occhi per gli innumerevoli risvolti.  Il Paradiso terrestre sul lato sinistro del Trittico delle delizie ha un aspetto di grande delicatezza e tuttavia fissano la nostra attenzione, oltre a qualche animali esotico a rappresentare il paradigma del Creato, anche un gatto che divora un topo, uno strano uccello quasi preistorico che toglie un uovo dalla bocca di un’anatra,  scorpioni, rospi, pesci volanti e voraci di cui uno tiene in bocca un imbuto, una tartaruga il cui corpo è un uovo e la testa un uovo rotto, e naturalmente il serpente avvinghiato all’albero della vita:  chiari segnali delle forze demoniache che insidiano gli ultimi arrivati Adamo ed Eva e presagiscono la loro perdita di innocenza .  Nel Trittico del Peccato originale, già sotto i piedi del Cristo in gloria seduto in cielo, si affollano angeli caduti o forse demoni dalla forma di insetti alati, ma anche rospi,  ragni, e non solo, anche uomini volanti.  Sciamano verso i basso alla conquista della Terra e  il loro gran numero fa temere la loro vittoria.

Quando più, quando meno, a non eludibili e tradizionali scene religiose si accostano di sbieco, a volte solo  accennate nello sfondo oppure in modo invasivo,  le figure del Male - nel Trittico dell’Epifania, come nella tentazione di Sant’Antonio e le Nozze di Cana.  Chi non sapesse dal racconto biblico che il Bene, grazie all’Incarnazione, alla fine riuscì a prevalere , potrebbe avere avuto qualche dubbio sull’esito felice della storia.  Questo dubbio avrà sfiorato anche Hieronymus Bosch? 
uesto QQ


Un cambiamento di registro s’insinua molto presto nell’atteggiamento del pittore.  Tralasciando i simboli o utilizzandoli come elementi decorativi, incomincia in alcuni suoi quadri a puntare l’attenzione sull’uomo.  Indifferenza, malvagità, follia e mancanza di compassione, curiosità, avidità, ecco cosa legge e imprime sul volto di personaggi fino allora inespressivi anche in stretto contatto con la divinità, anche in mezzo a scene infernali.  ( Il Trittico dell’Epifania, L’Incoronazione di spine, Ecce Homo).  E’ una nuova presa di posizione personale che si dichiara, ponendo l’uomo al centro del grande problema della colpa?  E che cosa significa?

Bosch è stato definito come un moralista e lo era formalmente.  Lo dimostra l’affiliazione familiare e sua propria  alla Confraternità di Nostra Signora, il cui scopo principale era il rinnovamento del costume religioso.  Non poteva in alcun caso esimersi da una devozione tradizionale.  La sua condanna di giudici corrotti, monaci e monache lussuriosi  ecc. si rifà, in termini iconografici, a un’ampia cronologia. Sebastian Brandt era già passato di lì, accomunando il peccato e la follia.  Non c’è da stupirsi quindi che Bosch non sia stato né ateo – non era possibile, allora – né eretico, bensì ortodosso.  Più per dovere che per scelta?  Difficile a dirsi: siamo agli albori del pensiero moderno in Europa.  Gli hanno anche attribuito un certo misticismo che troverebbe espressione nell’Ascesa all’Empireo, quarta tavola delle Visione dell’Aldilà di Venezia, le cui derivazioni sono controverse.  Che Bosch fosse attratto dal misticismo del suo tempo è possibile, che lo abbia rappresentato in modo geniale e del tutto insolito, è sicuro, con il ricorso a strumenti iconografici a lui, e a lui soltanto, riferibili.  Misticismo e moralismo presuppongono, tuttavia, l’ottimismo di fondo implicito nella fede e nell’efficienza salvifica del messaggio cristiano.  Nel Medioevo, questo ottimismo e questa fede erano totali, non ancora inficiati da una precisa percezione del demonio, anche sul piano iconografico. I demoni facevano parte del “bestiario” medioevale e tanto bastava per spaventare gli animi semplici.  Mai erano stati rappresentati in modo così vario e invasivo, come nella pittura di Bosch. Perché?

Curiosa, in un ricco e rispettato rappresentante dell’élite  di ‘s Hertogenbosch, questa marcata tendenza al fantastico e la valutazione tutto sommato secondaria degli eventi maggiori del Vangelo. In realtà, resta a oggi difficile afferrare la figura di Bosch.  L’attribuzione stessa delle sue opere non è certa, la loro affiliazione e cronologia ancora meno.   Però c’è un’unità d’intenti assai chiara che traspare perfino nelle copie delle sue opere, e quella non poteva appartenere che a lui. Uomo del suo tempo, Bosch?  Certamente. I tempi erano  movimentati, si aprivano su orizzonti di conoscenza incalcolabili, probabilmente destabilizzanti, e su un futuro buio.  Ma ciò non spiega fino in fondo questa singolarità sia nel senso sia nel segno che caratterizza la sua pittura.  Di benpensante non c’è nulla in Hieronymus e neanche di pedagogico.   Se piacque ai suoi contemporanei non fu per il messaggio morale, bensì  soprattutto per il divertimento che suscitava la sua capacità narrativa e  per il segreto richiamo a una libera lettura del mondo che essa consentiva. 

Nel cercare di capire questo strano personaggio, alcuni hanno messo in campo gli strumenti psicoanalitici del nostro tempo.  Correttamente?  I parametri della mente umana sono rimasti immutati dalla notte dei tempi.  Ciò che è cambiato è il contesto come sempre, dando raffigurazione e peso  diversi a aspirazioni, sogni, paure, speranze, secondo le epoche.  Simili considerazioni, prese fuori contesto, danno spesso luogo a un’interpretazione arbitraria. Il cosciente, il subcosciente, l'onirismo:  Hieronymus non avrebbe capito, tanto questi elementi erano intessuti nella sua personalità.  

Nel suo caso, ci troviamo davanti a un’individualità indipendente, solitaria ed egocentrica, che alimentava il proprio talento nell’immenso giacimento del suo immaginario.  Ciò che lo caratterizza è un’osservazione spassionata che lo conduce a un pessimismo di fondo,  una visuale più vicina alla realtà in cui l’uomo più del demonio diventa l’attore principale faccia al peccato.   Il Prestigiatore, l’Avaro,  la Rimozione della pietra della follia, la Nave dei folli,  il trittico della balla di fieno e persino i quadretti che orlano i tondo dei Sette peccati capitali appaiono come altrettante “scènes de genre” quotidiane, tratte da questa osservazione.  E li sta uno degli snodi dell’immaginario di Bosch. Non c’è divertimento né derisione e neppure  condanna  pedagogica e moraleggiante. Il pittore le rappresenta con distacco, quasi stesse componendo un mosaico. Ha forse il presentimento dell’implosione che sta per coinvolgere la società europea del XVI sec?

Il nostro contemporaneo, Hieronymus Bosch?  In questo senso,  sì.  L’implosione è avvenuta per noi nel secolo scorso, orribile per definizione, di cui le immagini non ci abbandoneranno mai. E’ stata rappresentata da Picasso in “Guernica”, e pure nel resto della sua arte percorsa da un terremoto iconografico che lo estrania da ogni tradizione.  Si esplicita anche nell’opera letteraria di Céline, nella rivolta linguistica, e non solo, anche umana che lo ha portato sull’orlo dell’abisso esistenziale, con una disperazione di tratto nichilista.  Altri come loro?  il Cavaraggio, Van Gogh, Malaparte, egocentrici tutti perché immersi in un universo interiore che aveva bisogno di esprimersi al di fuori dalle regole.    Intorno a loro, e da loro messo a fuoco, un mondo governato dal disordine - assai simile a quello di Bosch – dove è possibile tutto e il contrario di tutto, dove ognuno è isolato nella propria libertà e dalle proprie catene, dove nessuna spiegazione del presente, nessuna ipotesi del futuro, sta in piedi se non, in fondo, quella peggiore, data la natura umana.  Ne sono testimoni perché si collocano al margine.  Per questo,  attendibili.


mercoledì 7 marzo 2012

Lucio Dalla

Era gay, Lucio Dalla?  E allora? In questo mondo giulivo, festivo fino allo spasimo, dove tutto è possibile, anche l’Isola dei famosi e il Grande Fratello, quale è il problema? 
La cosa più illiberale che si possa immaginare è l’inquisizione degli affetti personali.  Che viene poi, in questo caso da quel settore della società – nella fattispecie la sinistra nella persona della signora Lucia Annunziata – che fa sempre lezione di politicamente corretto.  Basta! Basta ipocrisia, basta sepolcri imbiancanti, come gli chiama la Bibbia.  Ci vuole un po’ di discrezione, almeno nella sfera privata, media permettendo.

mercoledì 18 gennaio 2012

Brutto infierire



Schettino sarà colpevole di tutto ciò che gli viene addebitato dalla magistratura, la quale sa quello che fa.  Però i media sono colpevoli ancora una volta.  Ancora una volta, la presunzione d’innocenza che, pur intaccata dai fatti in questa occasione, dovrebbe valere come sempre e fino in fondo, è calpestata dai media.  In nome della sacrosanta notizia che deve giungere comunque all’opinione pubblica,  stanno infierendo in modo brutale su questo uomo, privandolo a priori di ogni suo elementare diritto.   Non dico il silenzio, che sarebbe utile ogni tanto, ma neanche queste grida e questi  schiamazzi giornalistici che vanno oltre il sopportabile.  Quando è che in Italia s’imparerà la misura?  


lunedì 21 novembre 2011

i had a dream


I had a dream

A strange dream.  I  sat on a chair with a child standing in front of me.  He was small, seven years old or so.   I was removing a layer of  hair from his shoulders, with  a pair of nail scissors, working slowly downward with great precision because I was afraid of hurting him.  The hair came off like a very fine, nearly invisible, shirt, all in one piece, and the skin beneath was perfectly smooth, though I was afraid at the beginning  it might appear  bloody like the meat of a farm rabbit readied for cooking .  The me outside the dream was surprised, the one inside not at all. I knew nothing of the place and time which were not defined in the dream, as I slept on.  Perhaps it was normal, where I was dreaming, that children should have gossamer-like fur covering their whole body, normal that adults – mother, grandmother, aunt – should remove it when they reached a certain age - the age of reason?  Somehow I had the sense that this was a traditional custom, in the dream world where I was, like the tightly wrapped feet of little girls in Japan to impede their growth, or the scars on the cheeks of certain African tribesmen, or the deformed skulls of noblemen in Peru or in Yucatan before the Spanish conquest. Such social habits are usually tolerated within and without their place of origin, though not necessarily approved by all.  In the dream, I had a good feeling about what I was doing, not that it was  harmful to the child, but still I felt a certain sadness, perhaps only I was ending his childhood. 
But I also wondered as I slept, or the real me wondered why, I was doing it. Why remove this reminder of a distant past when humans were an indistinct and integral part of the animal world? Was it a habit, a ritual, a statement, a justification, or all these things in one?  I don’t remember whether these queries came later, when I woke up, or were implicit even as I slept.  Did a form of rationalization take place at the end-tip of my dream, at the limit of consciousness?  Later, when I woke up, I tried, piece by piece, to put the puzzle together. This is what came of it, nothing scientific, a sort of coverage of my dream:    
Instinct is presided by rigid and specific rules insuring the survival of the species.    No species will suppress its kind or other species, or its environment, because it would only destroy its own means of survival. There is no gratuitous reason for death or destruction, in nature, madness is involved but rarely.  Lions will not cancel the whole deer population or wreak havoc to the savannah just for the fun of it.  Fun is related exclusively to specific acts of learning by playing in youngsters, of sustenance and mating, but it is a collateral effect, not the cause and most species are unaware of it.  Fun is not part of the animal world, humans excepted.
At a certain point – fifty thousand years ago? -  the human mind came into the picture.  It was not only governed by the rules of nature and instinct, but also by an urge to investigate the environment that was completely new and, to this day, remains a mystery.  By trial and error, randomly sought and erratically productive, with time and future looming ahead and constantly re-arranging the options, the alternatives  offered by human intelligence to the natural order had - and still have- the stamp of uncertainty.  They  were difficult to handle, brought about never-ending sequels that were elating but also difficult to understand, sometimes dangerous:  God, fire, tools, the wheel, war.  They produced  the necessity both of domination and progress. 
The  survival of the fittest has always been a question of adaptability which, at this point,  depends mainly on mankind. The human mind has fashioned the environment to the image of man who now dominates it, dynamic, disruptive, unreliable.   Basically ,  the survival of the fittest does not apply to all species anymore – except, perhaps, unicellular forms of life  - now that man is  an overwhelming presence on the planet. 
So where does that dream come in?
Lately,  I have been thinking of how fragile the human species has become, such as it is now, entirely dependent on technology, cut of from its roots, and from the laws of nature. This revolutionary trend has affirmed itself in the last two hundred years, which is nil compared to the millions of years of evolution preceding the appearance of man on earth.  Time is suddenly  spinning at vertiginous speed, and the only explanation is that the minimal sums of knowledge that the human mind silently accumulated for eons and ages have for some reason sparked into an elaboration that feeds upon itself endlessly, changing the very position of man within nature as it was, estranging him from it .   Nature has always been and often is merciless – earthquakes, tsunamis, meteorites, eruptions – blindly changing the course of evolution and history.  The human being of all times has had no defense against it, except the hardiness to survive and, and diversely from certain animal species, to start again from scratch.  Add to this the complete self-reliance of man nowadays , the capacity to rule out anything that goes against it , the incapacity to live in osmosis with nature as  his forefathers did:  all this opens a rather frightening scenario.  Mankind is on its own, it is depriving itself and other species of  adaptability because it is changing the raw and vital configuration of the natural world.   None can be considered  the fittest anymore in an environment that is ruled by uncertainty and requires the corrective interference of technology . So, yes, perhaps the dream had a meaning.  Perhaps, as I dreamed it, I knew  I was doing no physical harm to the child, but I felt a certain sadness at removing this last trace  of the animal in him and uncovering this new vulnerability.


mercoledì 8 giugno 2011

La notte è lunga



La notte è lunga.  Sarà il troppo fumo che impedisce il sonno oppure il divario tra il corpo in senescenza e la mente da quindicenne.  I fantasmi della mente si risvegliano come una vendetta davanti agli occhi spalancati e si agitano.  Paure.  Una fra tante, questa notte.
Inutile. Resto ancora di quell’idea.  Anni fa l’articolo per Domus sui libri.  Scrissi che preferivo il libro stampato, compagno della vita, sugli scaffali di casa e nelle librerie.  Avrei dovuto scrivere che lo preferivo a ogni alternativa tecnologica, web, e-mail, e-book.  Sarebbe stato meno romantico e più vero.  I libri possono bruciare, o bagnarsi o disperdersi, uno alla volta però, o intere biblioteche, nei falò delle rivoluzioni, delle inquisizioni.  Ma non tutti i libri di tutto il mond0 , dacchè esistono i libri e il mondo. I libri si ritrovano nelle soffitte, negli scavi archeologici, in qualche polverosa biblioteca di provincia. I Pc, invece, si guastano o diventano obsoleti, le diskette diventano illeggibili, o perché è cambiato il sistema o perché invecchiano.  Gli indistruttibili CD si danneggiano, eccome.  Ho perso così decine di racconti che avrei dovuto stampare.  Che ci voleva?   C’è il rischio che non resti più niente.  Di qualunque traccia scritta, mia, tua, sua, di un’intera epoca, di un’intera civiltà.  Questi strumenti hanno un certo limite oltre il quale più nessuno li sa leggere.  Bisognerebbe essere accorti sempre, e quando si è ancora in tempo, versarne i contenuti in contenitori più avanzati, computer o chiavette usb o memorie esterne.  Un lavoro da Sisifo, giacché la tecnologia non garantisce un attrezzo indistruttibile e  neppure l’uomo una memoria eterna.  I bisnipoti che trovassero un memory stick in qualche cassetto lo considerebbero un oggetto indecifrabile?  Uno scrigno di scienza o di letteratura, di ricordi? Se non sanno cos’è?   Se non hanno uno strumento per aprirlo?

domenica 30 gennaio 2011

I miei pensieri nel giorno della Memoria

Galileo inquisito di Goya

Nel 415 dopo Cristo, il vescovo Cirillo fece squartare Ipazia, filosofa, astronoma e matematica, perché si rifiutava di aderire al cristianesimo.  Diventò santo per aver soggiogato il popolo alessandrino, portandolo nel grembo della Chiesa.  Sin da allora e giù per i secoli, l’inquisizione è diventata uno strumento di potere ineguagliabile.  Con la rivoluzione francese, perse il suo carattere religioso, diventò laica.  Ma sempre inquisizione era, nelle caratteristiche e modalità.  Dotata di formidabili tribunali che Adriano Prosperi giustamente chiama “tribunali della coscienza”.  In entrambi i casi, il cristiano e il laico, l’obbiettivo era  tutelare il potere, limitando il libero pensiero e la libera espressione, la libertà insomma, in nome di un ferreo moralismo derivante dal concetto che Bernard Henri-Lévi definisce “il Bene assoluto”.

A questo punto, mi approprio della giusta distinzione di Angelino Alfano tra moralismo e moralità.  Sono esclusivi l’uno dell’altra.  Il moralismo può fare a meno della moralità, e ciò accade spesso.  La moralità deve fare a meno del moralismo.  Il primo giustifica e legittima il potere,  la seconda governa le azioni dell’individuo nella sua veste privata e pubblica, e assicura la sociabilità pacifica. All’individuo, il Vangelo, testo di straordinario pragmatismo, suggerisce di “dare a Cesare ciò che è di Cesare”, riconoscendo la difficoltà dei singoli di far fronte senza compromessi al mondo imperfetto in cui vivono.  Ai moralisti, assesta il colpo del “chi non ha mai peccato scagli la prima pietra”.

I moralisti di ogni risma e di ogni tempo, cristiani, mussulmani, laici e quant’altro, hanno dimostrato un pragmatismo molto più brutale. Qualche esempio:

Arnaud Amaury, abate cistercense e legato pontificio contro gli eretici di Linguadoca, all’indomani della presa di Béziers nel 1209, lanciò la famosa frase “Uccideteli tutti.  Dio riconoscerà i suoi.”  Non ci fu bisogno di tribunali.  Vennero dopo e molto ben congegnati allo scopo, anche se oggi vige una revisione al “ribasso” dei morti ammazzati dall’Inquisizione.  Difficile cancellarli, tuttavia,  pochi o tanti che siano, com’è difficile condonare l’abiura e  l’esilio forzati, dei catari, valdesi, ebrei, di Francia, Spagna e Portogallo.  Più tardi la persecuzione dei riformati.  Noël Beda, Mathieu Ory, la Sorbona dei dottori, grandi inquisitori.  Il massacro della San Bartolomeo.  Non ci fu processo o tribunale in quel caso.

Della Rivoluzione francese sappiamo quel che sappiamo:  il tribunale di Salute Pubblica, la ghigliottina sempre occupata, morti innumerevoli.  Fu così violenta, la Rivoluzione,  da divorare se stessa.

Lenin:  “fucilatela”, a proposito di una vecchietta che lo importunava.  Era nei primi tempi.  Dopo diventò un saggio amministratore, istituì i nuovi tribunali rivoluzionari e le corti popolari informati alla “coscienza legale socialista”, la Commissione straordinaria per combattere la contro-rivoluzione.  E poi, la Ceka… 

Hitler, dal canto suo, di fronte a milioni di nemici in patria – ebrei, zingari, froci - non aveva modo di istituire tribunali e scelse metodi più spicci:  i campi di sterminio.  Lo imitò con grande successo Stalin con il trasferimento di 5 milioni di Kulaki nei campi di lavoro dove morirono, i gulag, la grande Purga.  Lì, è vero, i tribunali c’erano, i risultati anche.

Khomeiny:  “Processi?  Sono colpevoli tutti.  Questa generazione deve scomparire insieme a tutta la sua discendenza.” All’inizio, ce ne furono di processi, per la vetrina.  Quello di mio padre durò 7 minuti, seguito a poche ore di distanza dalla fucilazione.  Come mio padre altri, molti altri,  oltre i kurdi, i turcomanni, dire 10000 forse è poco, e milioni di esuli.

Di esempi così la Storia è piena, giù giù fino a Tangentopoli, con i suoi miasmi è vero, ma anche con la lucida e feroce determinazione di magistrati:  “Rivolteremo l’Italia come un calzino.  Li metteremo dentro tutti e butteremo via le chiavi.”  Si trattava, sì, di ripulire l’Italia ed era un bene,  ma poi si è visto che si trattava anche di consolidare il potere nascente della magistratura.  Come da copione. 

In Europa, oggi, non esiste più la pena di morte, vivaddio.  Il Bene Assoluto è stato sostituito da un più gentile, ma altrettanto tirannico perbenismo,  che gli americani chiamano il “politically correct”. La cultura vigente impone un’accondiscendenza,  un conformismo che imbavaglia i singoli, toglie loro il diritto di usare la propria testa, pena l’esclusione dalla comunità grande e piccola.  La platea mediatica poi aiuta, serve da arena  di addormentamento e di repressione di qualsivoglia dissenso.  Come si fa a dissentire da Annozero?  Non si può… Serve anche, la platea mediatica, come anteprima dei processi giudiziari.  Non c’è da stupirsi che stia scomparendo la presunzione d’innocenza.   Un caposaldo del diritto, praticato oggi  dai più coraggiosi, e ce ne sono grazie a Dio, ma sempre più clandestini.

Questi i miei pensieri, non proprio felici, nel giorno della Memoria.   Sto diventando vecchia, fatto poco piacevole, ma voglio godermi almeno il privilegio della vecchiaia che consiste nel dire ciò che penso.  E penso che ricordare non basta, piangere neanche.  Il passato è stato brutto, ma il futuro non si presenta roseo, se si continua così a sperperare le poche conquiste che ci ha consentito la Storia. 

lunedì 6 dicembre 2010

Un po’ di relax


Giorni frenetici di lavoro, viaggi, incontri.  Meno male che ci sono stati due film abbastanza eccezionali a trasformare serate che, normalmente, si chiudono alle nove con un "io vado su a leggere", perché non c'è niente da vedere.
Il primo, chissà perché molto criticato ovunque dagli esperti del cinema,  è "The Concert" di Mihaileanu.  Un ex-direttore d'orchestra, una vera star del Bolshoi, cacciato trent’anni prima  per aver fatto suonare degli ebrei, è decaduto al rango di semplice inserviente nel grande teatro.   Viene a sapere di un concerto che deve tenersi al Chatelet di Parigi.  Convinto dell'incapacità dell'orchestra ufficiale, compie un atto di pirateria appropriandosi del fax d'invito e dell'occasione.  Raduna i suoi ex musicisti ebrei, tutti più o meno sbandati, fornisce loro documenti di espatrio fasulli e in qualche modo riesce a farli giungere a Parigi, dove ha convinto il teatro del Chatelet che sono loro la vera orchestra del Bolshoi.  Non racconto il resto, per non guastare la festa a chi non lo ha ancora visto.  Una trama implausibile, zeppa di gag e di personaggi scatenati,  un senso di vitalità debordante, grazie anche al grandioso Concerto n.35 di Tchaikovsky:   Mihaleanu riesce a farci passare due ore di puro piacere e anche di emozione.  Che altro si può chiedere a un fim?
L'altro film è "Einstein and Eddington" di Philip Martin.  Di un genere tutto diverso.  Appassionante racconto di come la teoria della relatività ha trovato la sua dimostrazione grazie a uno scienziato inglese, Eddington, durante la prima guerra mondiale.  Il rapporto tra due uomini molto diversi,  intralciati da un conflitto che li obbliga a essere nemici, seppure accomunati dalla scienza e dalla intima opposizione alla guerra, è descritto con sobrietà e risulta per questo avvincente.   La dimostrazione  fa passare un brivido nella schiena.   Gli asini come me che non hanno mai capito la teoria della relatività  qui possono cominciare a capire. 


martedì 19 ottobre 2010

Re intercettazione



A proposito della saga Marcegaglia, mi sono chiesta, e molti con me, con quale decreto  e per combattere quale reato, sia stata predisposta l’intercettazione -immediatamente divulgata - della conversazione tra Porro e Arpisella.  Altre domande: da chi? A quale scopo?  Sia la messa in atto che la divulgazione. 
Porro e “Il Giornale” non hanno fatto altro che mettere in fila i dossier raccolti da concorrenti assai più potenti e allineati come Repubblica, l’Espresso.  E’ stata da parte de “Il Giornale” un’operazione spericolata e, a dire poco, ingenua.  Feltri credeva, nella sua furbizia, di poter dimostrare che i dossier raccolti da una certa parte sono considerati leciti, legittimi e corretti e, inversamente, quelli raccolti da lui fasulli, contraffatti e inaccettabili.  E’ caduto in una trappola mortale.  Nessuno lo ha ascoltato perché il suo giornale appartiene alla sfera berlusconiana, perdente per definizione.  Nessuno da’ retta ai perdenti, e tantomeno li difende. 

giovedì 2 settembre 2010

C'é ancora qualcosa da dire?

Ho perso un po' l'interesse, posso dirlo? Nella politica, nella cultura, nella storia, tutte cose che per me sono state di importanza fondamentale, da sempre. Mi sembra che viviamo una confusione inestricabile.

1) Nella politica italiana: ormai la posta in gioco per tutti - a cominciare da Napolitano, per passare poi a Fini, Di Pietro, all'incapace PD che vuole creare un novello Ulivo (!)- è di togliere di mezzo Berlusconi. Si può essere anche d'accordo, ma non si vede una proposta politica alternativa. Chi la può proporre? D'Alema, che sto guardando adesso su SKY TG Active? Infilza con grande sufficienza preziose polemiche, una dopo l'altra, banalità, banalità... Non si è mai esposto in prima persona, gode dei privilegi che si è creato in qualità di eminenza grigia, molto grigia. E' sempre stato di una prudenza quasi patologica nel difendere un suo futuro ormai atrofico e ipotetico, dato il carattere e l'età. Fini cerca di proteggere i suoi scheletri nell'armadio e uscire fuori vivo, mettendo tutti contro tutti, qualunque sia il costo per la collettività. Casini cerca di vendersi al meglio offerente da tempo, a costo di ammazzare il Centro. Rutelli è quello di sempre, peso piuma per eccellenza. Tutti si richiamano alla democrazia e a un liberalismo ormai agonizzanti, tutti sono mossi da vanità e da secondo fini.

domenica 18 aprile 2010

Telefonini

Ero a Vinitaly nei giorni passati, per motivi di lavoro. Tra due degustazioni al mio stand, oppure fuori quando andavo a fumare, ho osservato la gente che era tanta, una folla davvero variegata. Uomini maturi con le borse di lavoro rigonfie, completi grigi e la pancia che tira i bottoni della camicia; hostess dalle gambe lunghe fasciate da stivali, sotto gli abitini corti, visioni quasi medievali, se non ché il colore predominante è sempre il nero; trentenni o quarantenni con la testa rasata e gli occhialoni scuri, look tipo Saviano; giovani con i capelli ritti di gel, in gruppo come per farsi coraggio, ridanciani, i volti accesi dal vino. Una specie di carrellata della società di oggi che, tuttavia, non si lascia più afferrare nelle sue stratificazioni. Impossibile dire chi è chi, vivaddio. La moda non è bella ma, di certo, ha livellato ogni differenza, di reddito o di origine sociale o geografica. Sasch, Zara, Benetton, Stefanel e quant’altri hanno prezzi accessibili e impongono di anno in anno le loro scelte estetiche che tutti, veramente tutti, sono tenuti a seguire. I cinesi e i senegalesi vendono borse Vuitton e occhiali Ray-ban falsificati ma, plastica per plastica, credibili lo stesso. I veri ricchi non fanno testo semplicemente perché non si vedono a giro né a Vinitaly, né altrove, viaggiano in auto di lusso, entrano da porte laterali per non essere riconosciuti, alla fiera di Verona frequentano grandi produttori che lavorano esclusivamente su invito, all’interno di stand blindati e oscurati all’esterno da veneziane. Quindi, nel panorama generale, i ricchi non contano o quasi, per quanto egemoni nelle statistiche economiche.

Torniamo allora agli altri, al popolo di tutti giorni, uniformato dal vestiario, dalla musica, dai programmi televisivi. Ma soprattutto dai telefonini, i Blackberry, l’ Iphone con touch-screen, che consentono di arrivare in capo al mondo con incredibile facilità, il Nokia universale e a prova d’imbecille. A Vinitaly, non credo di aver visto una persona che passeggiasse con le mani in tasca. Tutti quanti avevano un telefonino in mano, a guardare i loro messaggi, o incollato all’orecchio. Facce serie o divertite, di gente perfettamente integrata in quel mondo cellulare, mai sola, certamente non sola per scelta o per necessità, con tanti amici, tanti contatti, tanti appuntamenti e progetti da mettere a punto. Un piglio secco e professionale per alcuni, familiare e giocoso per altri. Una sorta di cancellazione dei dubbi personali, delle incertezze. Ognuno importante agli occhi di qualcun altro, importante sia quando chiama sia quando riceve, prova in mano che appartiene, partecipa, conta. Mi sono chiesta “che succede se non squilla il cellulare, se non chiama nessuno?” Un senso di abbandono , di esclusione, una specie di autismo a livello umano e professionale? Infatti, il ritornello più frequente che si sente a giro è dove sei? Non riesco a trovarti, ti devo parlare… Oppure Scusa, ti richiamo fra un secondo, ho un’altra chiamata (sul secondo cellulare o forse il terzo).

Il telefonino a me serve soprattutto per il lavoro e, anche allora, provo un senso d’insofferenza quando squilla troppo spesso. Irrazionale: se squilla vuol dire che deve. Mi è molto utile, lo ammetto, non ne farei a meno, lo tengo attaccato al collo con una cordicella rossa per non perderlo. Il mio numero, lo do ai corrieri, agli agenti, ai clienti, ovviamente anche agli amici, quel numero fa parte della mia identità. Chiedo sempre il numero di cellulare degli uni e degli altri perché potrei non trovarli a casa o in azienda quando ne ho bisogno e sarebbe un guaio. Mi serve proprio, ma con quel particolare marchingegno tecnologico ho un rapporto di amore-odio perché spesso invade la sfera privata, mi tira fuori dal cesso, dalla doccia o dal letto, mi distoglie da un libro o da una conversazione, mi obbliga a fermare la macchina quando ho furia e ho sempre furia. Il telefono di casa, un tempo, se ne stava fisso in corridoio o nel tinello, poteva strillare quanto voleva, se non c’eri non c’eri, ti dava la possibilità di fingere di non esserci. Esisteva una distanza tra te e l’oggetto che poi si è accorciata. E’ arrivata la segreteria telefonica, altra schiavitù, poi il telefono è diventato cordless, poi ha lasciato il posto a questo fratellino stridulo e perentorio. E’ solo uno strumento, direbbe mio figlio se mi leggesse. A me pare che sia molto di più ormai, ci tiene legati a guinzaglio e ci conduce chissà dove, senza chiederci il permesso. E questo che mi dà fastidio, anche se a forza di usarlo, sto diventando sorda.

mercoledì 3 marzo 2010

Il lager burocratico

Questo Paese è rinchiuso in un lager burocratico. Chiunque ha a che fare con le istituzioni lo sa. Pensionati, ammalati, privati cittadini alle prese con licenze edilizie, contributive, lavorative, produttori di ogni sorta. Alle leggi, ai regolamenti, alle proroghe, deroghe e quant’altro dedica una parte del suo bel libro Luciano Violante che ne depreca la selva incontrollabile e in crescita esponenziale, anno dopo anno. Sottintesa, l’ incomprensibile lettura delle stesse da parte del comune cittadino. Asino o semplicemente disorientato, non può che essere sempre in fallo, oggetto di sanzioni, in molti casi penali. Sto parlando di violazioni burocratiche, non di reati o di delitti. Non viene riconosciuto un livello minimo di tolleranza dell’errore, né tantomeno la buona fede. Leggi e regolamenti della CEE, dello Stato nazionale, delle Regioni, tutti quanti severamente rigidi e inderogabili, atti a reprimere presupposti impulsi delinquenziali nell'uomo comune, nel suo operare sociale ed economico... Ce n’è da togliere il sonno al più incallito, più cinico, tra di noi, che viviamo e lavoriamo in Europa e in Italia.

Quarant’anni fa, quando mi sono stabilita in Italia, La CEE era ancora il Mercato Comune di pochi (5 o 6) membri, l’Italia era ancora un paese semi-agricolo, i commercianti inveivano contro il famigerato “dazio”. La tassazione era peraltro sopportabile, la classe politica che costruiva la democrazia aveva ancora il senso dello Stato piuttosto che dei propri privilegi, tranne eccezione. La politica aveva un senso. Io votai per la prima volta in occasione dell’istituzione delle Regioni in Italia. Il solo fatto di votare mi riempiva di euforia, così come l’idea delle Regioni, così come dell’Europa comunitaria, della democrazia.

Sono passati quarant’anni. L’Europa oggi mi sembra il caposaldo di una burocrazia super pagata, lontana dalla realtà territoriale dei suoi (26? ho perso il conto) paesi membri, che sforna legislazione secondo la velleità dei singoli e secondo una malintesa correttezza politica, assai lontana dalle esigenze della popolazione che ne subisce l’autorità, assai lontana anche dalla cultura della responsabilità che nessuno rifiuterebbe se solo fosse comprensibile. Lo Stato, membro della Comunità, ne rispecchia i difetti e li amplifica. Le Regioni poi, molto gelose della propria autonomia, li amplificano ancora, dimostrando solo capacità retorica, pochissima capacità di gestione. Un esempio fra tanti: all’Aquila, dove ha tutta la competenza, che cosa ha fatto la Regione per la ricostruzione in questo anno del dopo terremoto? Da molto tempo, sento dire che bisogna sopprimere le Province perché bastano e avanzano le Regioni. In anni di lavoro nell’agricoltura, ho trovato molta più attenzione sul territorio da parte della mia Provincia, collaborazione e azione concreta. Rimpiango il mio voto di gioventù per l’istituzione delle Regioni, fonte oggi di grande confusione, di sprechi enormi (le "ambasciate" regionali presso la CEE oppure a Roma ne sono un esempio curioso e inspiegabile) che sono necessaria premessa di corruzione.

Lo Stato poi e la politica con la P sempre più minuscola, stanno dando da anni uno spettacolo pietoso. Di un ridicolo che non fa ridere, in questi ultimi mesi. Mancanza di progetto, mancanza di azione, in ogni possibile campo, chiacchiere senza esito e cattivi esempi, tanti. Chiunque governi... Molti privilegi, estesi a un’ampia clientela e a uno spesso strato garantito della società. Lo Stato somiglia sempre più a un acquario chiuso, le cui spese immense sono a carico del cittadino.
Quanto può durare ancora?

lunedì 15 febbraio 2010

Leggi ordinarie o eccezionali?

Se non funzionano le leggi dello Stato, o si cambiano oppure si usano mezzi eccezionali, non c’è scampo. Se ieri sera, domenica 14 febbraio, avete visto “Presa Diretta”, il programma di Riccardo Iacona sulle scuole italiane, ve ne sarete resi conto: in tutta Italia, scuole pericolanti, sovraffollate (con necessità di reperire aule esterne o di usare quelle interne a rotazione o ancora di dividere aule esistenti in due, creando ambienti insalubri e fuori norma), spesso prive delle certificazioni per l’agibilità e l’abitabilità, eppure utilizzate perché altrimenti i ragazzi restano a casa. Un dramma e una vergogna, trattandosi dei ragazzi di questo Paese, l’unico patrimonio che ci resta da investire in futuro. Roba da piangere.
Ora, per cambiare le leggi, bisogna cambiare gli uomini che le fanno, o quanto meno il loro taglio mentale: le leggi italiane sono così restrittive, rigide e farraginose da togliere loro qualsivoglia efficacia. Questo per un puritanesimo fuori luogo, per un ben pensare e un estetismo giuridico del tutto formale, repressivo e inadeguato alla mole gigantesca dei problemi. Tanti, tantissimi regolamenti e leggi e, a fronte, una mancanza di volontà politica, di capacità amministrava di metterli in atto. “Sanzioni”, sì, ma come applicarle a chi si dimostra manchevole pure avendone l’autorità e i mezzi (governo, legislatore, magistrati, sindacati)? Nessuno risponde di niente a nessuno, ormai. Così, anno dopo anno, il Paese continua a degradarsi, a franare su se stesso e non solo figurativamente, scivolando verso una totale paralisi. I soldi italiani e comunitari vengono sperperati a danno della comunità che subisce, priva com’è di qualsiasi strumento di autodifesa e di controllo su chi gestisce il Paese. Quanto tempo può durare ancora?