Ero a Vinitaly nei giorni passati, per motivi di lavoro. Tra due degustazioni al mio stand, oppure fuori quando andavo a fumare, ho osservato la gente che era tanta, una folla davvero variegata. Uomini maturi con le borse di lavoro rigonfie, completi grigi e la pancia che tira i bottoni della camicia; hostess dalle gambe lunghe fasciate da stivali, sotto gli abitini corti, visioni quasi medievali, se non ché il colore predominante è sempre il nero; trentenni o quarantenni con la testa rasata e gli occhialoni scuri, look tipo Saviano; giovani con i capelli ritti di gel, in gruppo come per farsi coraggio, ridanciani, i volti accesi dal vino. Una specie di carrellata della società di oggi che, tuttavia, non si lascia più afferrare nelle sue stratificazioni. Impossibile dire chi è chi, vivaddio. La moda non è bella ma, di certo, ha livellato ogni differenza, di reddito o di origine sociale o geografica. Sasch, Zara, Benetton, Stefanel e quant’altri hanno prezzi accessibili e impongono di anno in anno le loro scelte estetiche che tutti, veramente tutti, sono tenuti a seguire. I cinesi e i senegalesi vendono borse Vuitton e occhiali Ray-ban falsificati ma, plastica per plastica, credibili lo stesso. I veri ricchi non fanno testo semplicemente perché non si vedono a giro né a Vinitaly, né altrove, viaggiano in auto di lusso, entrano da porte laterali per non essere riconosciuti, alla fiera di Verona frequentano grandi produttori che lavorano esclusivamente su invito, all’interno di stand blindati e oscurati all’esterno da veneziane. Quindi, nel panorama generale, i ricchi non contano o quasi, per quanto egemoni nelle statistiche economiche.
Torniamo allora agli altri, al popolo di tutti giorni, uniformato dal vestiario, dalla musica, dai programmi televisivi. Ma soprattutto dai telefonini, i Blackberry, l’ Iphone con touch-screen, che consentono di arrivare in capo al mondo con incredibile facilità, il Nokia universale e a prova d’imbecille. A Vinitaly, non credo di aver visto una persona che passeggiasse con le mani in tasca. Tutti quanti avevano un telefonino in mano, a guardare i loro messaggi, o incollato all’orecchio. Facce serie o divertite, di gente perfettamente integrata in quel mondo cellulare, mai sola, certamente non sola per scelta o per necessità, con tanti amici, tanti contatti, tanti appuntamenti e progetti da mettere a punto. Un piglio secco e professionale per alcuni, familiare e giocoso per altri. Una sorta di cancellazione dei dubbi personali, delle incertezze. Ognuno importante agli occhi di qualcun altro, importante sia quando chiama sia quando riceve, prova in mano che appartiene, partecipa, conta. Mi sono chiesta “che succede se non squilla il cellulare, se non chiama nessuno?” Un senso di abbandono , di esclusione, una specie di autismo a livello umano e professionale? Infatti, il ritornello più frequente che si sente a giro è dove sei? Non riesco a trovarti, ti devo parlare… Oppure Scusa, ti richiamo fra un secondo, ho un’altra chiamata (sul secondo cellulare o forse il terzo).
Il telefonino a me serve soprattutto per il lavoro e, anche allora, provo un senso d’insofferenza quando squilla troppo spesso. Irrazionale: se squilla vuol dire che deve. Mi è molto utile, lo ammetto, non ne farei a meno, lo tengo attaccato al collo con una cordicella rossa per non perderlo. Il mio numero, lo do ai corrieri, agli agenti, ai clienti, ovviamente anche agli amici, quel numero fa parte della mia identità. Chiedo sempre il numero di cellulare degli uni e degli altri perché potrei non trovarli a casa o in azienda quando ne ho bisogno e sarebbe un guaio. Mi serve proprio, ma con quel particolare marchingegno tecnologico ho un rapporto di amore-odio perché spesso invade la sfera privata, mi tira fuori dal cesso, dalla doccia o dal letto, mi distoglie da un libro o da una conversazione, mi obbliga a fermare la macchina quando ho furia e ho sempre furia. Il telefono di casa, un tempo, se ne stava fisso in corridoio o nel tinello, poteva strillare quanto voleva, se non c’eri non c’eri, ti dava la possibilità di fingere di non esserci. Esisteva una distanza tra te e l’oggetto che poi si è accorciata. E’ arrivata la segreteria telefonica, altra schiavitù, poi il telefono è diventato cordless, poi ha lasciato il posto a questo fratellino stridulo e perentorio. E’ solo uno strumento, direbbe mio figlio se mi leggesse. A me pare che sia molto di più ormai, ci tiene legati a guinzaglio e ci conduce chissà dove, senza chiederci il permesso. E questo che mi dà fastidio, anche se a forza di usarlo, sto diventando sorda.
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