Di Alberto Alesina e Francesco Giavazzi. Un saggio interessante e molto puntuale, di cui l’unica cosa che non ho capito lì per lì era il titolo. Sembrava che i due autori , malgrado tutto, partissero dalla solita premessa che la sinistra è comunque detentrice della verità assoluta, che resta il campione inconfutabile dell’etica? Oppure che da parte loro ci fosse una specie di mimetismo involontario che ci colpisce tutti per un riflesso di auto-difesa, specie se stiamo dalla parte sbagliata. Ma no, a rifletterci bene il titolo significa che il liberismo è più di sinistra di quanto non sia liberista la sinistra. Che in materia ha ancora tutto da imparare. Il liberismo (e liberalismo) non stanno nel DNA della sinistra, né storico né umano, non di ieri, e neanche di oggi.
Tutto è cominciato nel Sessantotto. Io l’ho vissuto in prima persona in Francia, da straniera, è vero. Il casino mi ha divertito per un po’- avevo vent’anni - non per molto. Ho visto un’università nuova di zecca , dotata di ogni strumento possibile, trasformarsi in un accampamento di selvaggi. La distruzione non mi sembrava consona a tutti gli alti principi che sentivo proclamare nelle assemblee dai capi popolo studenteschi/operai. Subito dopo, rispetto alle bizze degli studenti, sono successe cose assai più rilevanti, almeno in Italia. In quel tempo del “vogliamo tutto, la protesta e la rivolta nascevano davvero dal basso, dal ventre della classe operaia venuta su al Nord, a lavorare alle catene di montaggio. Vi era allo stesso tempo l’autenticità e la spontaneità di quelle voci e la giustificazione della storia. Elio Petri raccontava splendidamente i fatti e Volonté li interpretava in modo geniale. Ed erano fatti di grande novità rispetto a sempre, rispetto ai millenni passati. Non si poteva non essere di sinistra in quel momento. Ma già allora, e poi sempre più , dopo la caduta del Comunismo, dopo la Bolognina, prevalse un’operazione di salvataggio dell’identità devastata del PCI . La sinistra si posizionò al crocevia di tutte le paure, creandosi con grande avvedutezza una sorta di monopolio di ogni possibile valore etico, senza mai averne l’onere della prova – e chi gliela poteva chiedere? I capitalisti condannati da Tangentopoli, la DC o il PSI distrutti?
Così, nel’immaginario collettivo, la “solidarietà” diventò un’esclusiva della sinistra: La “difesa dei deboli”, il “diritto allo studio”, il “pacifismo”, la “difesa del lavoro” , pietra angolare della Repubblica, il “diritto di manifestare”, di “difesa dell’ambiente” , di “difesa della donna, dei gay” e via dicendo. Erano così affinati e legittimati tutti i parametri di una cultura marxista nuova di zecca, sganciata dalla brutta tragedia del Comunismo sovietico. Tutti dovevano plaudere e conformarsi. Praticare questi principi sulla base della propria coscienza, nel privato della propria vita, senza gridarli, voleva dire scegliere la parte sbagliata.
Non c’è stato scampo per nessuno: anche gli “esprits forts” hanno dovuto conformarsi a questa cultura, pena l’esclusione. Tutti si sono buttati dentro, senza voler cogliere l’occasione di riflettere. Su che cosa riflettere? Sul fatto che si stava allevando la mala erba del privilegio, e consolidando l’abitudine al parassitismo.
Il merito ha perso via via ogni ogni legittimità, così pure l’eccellenza, la concorrenza, la ricchezza. Tutte cose da cestinare ormai, in nome dell’equità, contro la propensione terribile del cosiddetto capitalismo al sopruso. Sopravvenuta poi la “influenza” americana del 2008, peggio di quella spagnola, questo atteggiamento ha trovato piena giustificazione. Il dramma si è così consumato. L’Italia non è più psicologicamente in grado di competere, gli italiani non ci provano nemmeno: più facile crogiolarsi in una “equità” costosissima e tutta virtuale, giacché non sostenuta dalla concretezza. I giovani, in assenza di ogni futuro, si chiudono nella fortezza informatica di face book, e twitter, alla ricerca di un loro destino individuale che non ha molto a che fare con la realtà. Vizi di gente ricca, caduta in povertà, e incapace di adattarsi. Le aziende sono costrette a chiudere per mancanza di ossigeno finanziario e non solo, per mancanza di risorse umane, in sostanza di gente determinata a tirare fuori le gambe dalla crisi. Manca, a questo punto, la capacità di produrre ricchezza. Sarà una cosa orribile, la ricchezza, da condannare, ma quanto necessaria alla vita di una nazione!
Il liberismo e il liberalismo sono troppo deboli, poco attraenti in questo frangente. Non sono in grado di offrire una cultura alternativa. Richiedono raziocinio e oggi è troppo chiedere. La cultura esistente è troppo bene radicata, troppo comoda nella sua retorica. Per realizzare il liberismo, bisognerebbe annullare la cultura del privilegio e della legittimità abusiva. Molto difficile. Dove andiamo?
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