Salivo sull’autobus per
andare all’aeroporto di Stansted. Una ragazza mi ha aiutato a caricare la valigia a
bordo. Casualmente mi sono seduta
di fianco a lei nell’autobus.
Subito sono cominciati i problemi di traffico a causa della chiusura di
un tunnel sul nostro percorso. La
ragazza su agitava per il ritardo e pregava Gesù di non farle perdere il volo. L’ho rassicurata, dicendole che eravamo
solo all’uscita di Londra e che passato quell’ingorgo, saremo andati
spediti. Così è stato e abbiamo
potuto chiacchierare un po’.
Era una bella donna, intorno
ai 40 anni, alta e molto formosa, grandi piedi e mani, vestita con eleganza,
un’acconciatura complicata. Mi ha
detto di essere nigeriana e, siccome mi piacciono l’Africa e i suoi abitanti, ho
cominciato a farle domande.
Mi ha raccontato di avere studiato
Fashion design in Nigeria e di aver aperto un laboratorio di abiti da sposa nel
Kent. I suoi due figli sono ormai grandi, e così può
tornare ogni tanto nel suo paese di origine. Le ho chiesto perché non in modo definitivo. Mi ha risposto che, dopo l’Inghilterra, la Nigeria la fa ammalare
sempre per via dell’insalubrità generale.
Le ho chiesto se ne era
nostalgica e mi ha risposto non proprio, e si è rabbuiata. Le ho chiesto se anche suo marito
lavora in Inghilterra. Ha scosso
il capo. Ho pensato: forse è
divorziata. Lei ha ripreso il discorso, parlando dei suoi due figli, uno
studente d’ingegneria e l’altro già avvocato. Mi ha raccontato
che il primo era disordinato, a tratti indolente e molto riservato; il
secondo, l’avvocato, invece, preciso negli orari e nelle cose, sempre un po’
stressato, molto preso dagli studi prima , poi dalla sua attività, e – disse,
scuotendo la testa – pure dall’impegno sociale. Tutto suo padre, disse lei. Il quale, anche lui, era avvocato, ma non uno
qualsiasi. Si occupava di diritti
civili – e umani - in Nigeria, paese difficile, governato dalle grandi
compagnie petrolifere molto legate alla classe dirigente e molto attiva in
politica.
Ormai la ragazza parlava
liberamente con me. Mi ha
raccontato che la situazione politica precipitava spesso. Suo marito era impegnato sul fronte
delle libertà civili, difficile per definizione in un paese come quello. Era spesso
minacciato. Lei lo pregava di
smettere, di pensare alla famiglia,
Finché non fu ucciso, praticamente sotto i suoi occhi – non mi ha spiegato
da chi, esattamente. Fu allora che
lei prese le sue poche cose e i suoi bambini e immigrò in Inghilterra per
rifarsi una vita.
Mi ha colpito questa
donna, con il suo sacchettino di plastica al posto della borsa da viaggio, dove ha frugato in continuazione durante
questo viaggio a Stansted, alla ricerca del biglietto, del passaporto. Mi parlava con animazione, ogni tanto
aveva un sorriso molto bello, non si lamentava e, soprattutto, non
mentiva. Niente dettagli, niente
esagerazioni nel suo discorso. Il
suo racconto era pacato, per niente drammatico, cose superate ormai. Un’altra vittima del nostro mondo
completamente pazzo. Per me una
nuova amica di cui non so niente. Ne ricorderò sempre il volto e la voce un po’ rauca.
Quando si è fermato
l’autobus, le ho detto di correre all’imbarco. Mi ha gridato un saluto caloroso e l’ho vista sparire nel
tunnel d’ingresso dell’aeroporto.
Troppo tardi per chiederle il suo nome.
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