Si fa sera a Pompei. Ho mangiato la pizza con Enzo e i ragazzi su una piazzetta davanti alla Circumvesuviana e adesso mi sono messa sul balcone della nostra camera d’albergo a guardare il Vesuvio, la piazza sottostante, a pensare a Pompei.
E’ Venerdì Santo e pioviggina. E’ piovuto a scrosci tutto il giorno, da quando siamo partiti da Roma. Abbiamo visitato la parte nuova degli scavi e pioveva ancora. Ci siamo riparati sotto i tetti delle case pompeiane, in stanze pompeiane con sbiaditi intonaci rossi macchiati di umidità, con piccoli uccelli disegnati e lunghe ghirlande delicate di edera, così inutili, così belli. Tante case erano chiuse, le abbiamo guardate di fuori, dalle sbarre dei cancelli e ho avuto una strana sensazione di silenzio, di fantasmi che tacevano in presenza nostra. Chissà perché? I giardini sono bellissimi, bagnati dalla pioggia. Le piante non possono avere più di trenta o quarant’anni, ma sembra che siano lì da sempre. E’ ridicolo, sarebbero state incenerite. Forse sono proprio le piante che danno quest’illusione di mute presenze, antiche, antiche.
Vediamo un paio di calchi. Leopoldo è attratto, forse un po’ impaurito. Madre e figlia abbracciate, contorte nell’angoscia del loro abbraccio. C’è immediatezza. Cominciano a filtrare nella mia mente immagini della tragedia. Pensa a Halabja, alle immagini viste in TV pochi giorni fa. L’uomo morto che giace sul corpo del suo bimbo neonato a proteggerlo, inutilmente.
Adesso guardo la piazza davanti alla stazione, con la sua animazione e la sagoma del Vesuvio, appena visibile nella notte che sta scendendo. Banalissimi pensieri, come evitarli? C’è una bancarella di aranci e di limoni. Il fruttivendolo è un uomo massiccio, seduto lì con la moglie, gioca con il suo cane, un bastardino bianco dal pelo corto, il muso appuntito. Gli butta spicchi di aranci. Il cane li mangia poi comincia una corsa frenetica intorno all’edicola. La scena si ripete molte volte. Si avvicinano dei ragazzi sui diciotto, venti anni. Uno di loro zoppica, anzi corre zoppicando per stare dietro ai suoi amici e i suoi lunghi capelli volano. Vanno dal bancarellaio, tutti ragazzi di strada. C’è un piccolo diverbio, passa qualcosa di mano. Non sono aranci, è qualcosa di piccolo. I ragazzi pagano, forse pagano con pochi soldi, c’è un po’ di discussione. Poi vanno a sedere nelle nicchie della stazione. Stanno lì senza più schiamazzare e fanno qualcosa che non si vede ma che si può immaginare. Potrebbe essere tutt’altra cosa chiaramente, ma la scena è così quotidiana, così squallida, viene spontaneo pensare che si stanno bucando. Strano ma non c’è angoscia, tutto questa sembra normale, come le luci al neon e gli orrendi colori del Luna Park dietro la ferrovia, sotto la mole del Vesuvio. E io penso che sono qui, un Venerdì Santo, a guardare questa scena di strada pagana, che si svolge sotto il vulcano di Pompei. Le concatenazione è troppo facile, i miei pensieri troppo scontati. Rientro in camera e chiudo la finestra.
L’indomani mattina presto, quando mi affaccio di nuovo, la piazze è deserta, le saracinesche dell’edicola sono abbassate, il Vesuvio è ancora spento. C’è solo un po’ di sporcizia in terra. Andiamo a visitare Pompei.
Pompei, 1 aprile 1988
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