martedì 20 aprile 2010

Tariq Ali Khan - 2

Il funzionario di polizia all’aeroporto gli faceva delle domande in pashtun. Tariq balzò fuori dai suoi pensieri con il cuore in gola e raccontò la storia della sorella. Doveva giustificare la sua presenza nel paese.

L’altro lo squadrò, scrutò di nuovo ogni pagina del passaporto, scosse la testa un paio di volte. Gli fece qualche altra domanda, volle sapere quanti soldi aveva con sé. Cinquemila euro? Perché così tanti? Cosa aveva da comprare? Volle vederli. Tariq aveva già capito. Tirò fuori il portafoglio. Niente di cambiato, insomma. Da qualche parte, nel profondo, scattò in lui un sentimento di orgoglio di non vivere più in posti come questo, ma lo zittì subito. Ormai non sarebbe tornato indietro e doveva regolarsi.

Dormì in una locanda del bazar. Mangiò per colazione un pezzo di pane e formaggio con un bicchiere di tè bollente, sciogliendo lentamente una zolletta di zucchero fra i denti. Avrebbe voluto restare lì seduto, nel piccolo caffè all’ingresso del bazar, ad ascoltare i discorsi degli avventori che parlavano di guerra, di soldati stranieri e di fatti personali, nella lingua pasthun che era anche la sua. Ma non poteva, c’era un autobus da prendere per andare verso sud, una carcassa di autobus che avrebbe aspettato a lungo di sicuro, con fiancate dipinte e porta-pacchi straripante. Il deserto e le montagne sarebbero sfilati davanti ai suoi occhi, tenendolo sveglio a dispetto del posto scomodo, dell’odore di corpi pigiati e non lavati. Nessun rimpianto: già sprofondava nel passato remoto, già si era lasciato dietro tutti gli orpelli occidentali. Niente completo e cravatta, una lunga tunica bianca sopra i pantaloni larghi, un gilè di lana grezza, un copricapo mussulmano appoggiato sul cranio, la barba che cominciava a infoltire, non ancora a crescere. Tempo un giorno, l’abbigliamento comprato nel bazar si sarebbe sgualcito e, strusciando qua e là, avrebbe perso il biancore del nuovo, le scarpe senza calzini che gli tormentavano i piedi si sarebbero impolverate in modo irrimediabile. Più nessuno avrebbe posato su di lui uno sguardo indagatore e questo lo rasserenava. I posti di blocco erano ovunque, gli stranieri erano sospettosi, facevano scendere tutti per meglio perquisire l’autobus. Ma nell’entroterra brullo e spopolato, spesso i soldati erano afghani e si stancavano di tutti quei poveracci scalcagnati come loro, spesso orbi o mutilati. Facevano presto e se non trovavano niente, lasciavano perdere. Era impossibile vedere tutto, controllare tutto e passato l’autobus, si mettevano a fumare sul ciglio della strada in attesa del prossimo, in attesa di un attentato che sarebbe arrivato prima o poi e che non erano in grado d’impedire. Neanche si accorsero di Tariq, dei suoi soldi, della sua faccia pachistana. Il paese era un crogiuolo di razze le quali, anche se nemiche, erano familiari. Tariq osservava tutto, sospettoso pure lui, e concludeva che non era certo difficile piazzare una bomba in queste condizioni e fare saltare tutti quegli sfaccendati di soldati, ma a che pro? Altri erano gli obiettivi. Zittì di nuovo i suoi pensieri, non spettava a lui dare giudizi o prendere decisioni. Lui era venuto a imparare e obbedire, glielo avevano ripetuto tante volte a Milano, dentro e fuori la moschea.

Presero verso sud-est, sull’altopiano infinito, si avvicinarono di nuovo alle montagne che fino allora orlavano l’orizzonte. Le facce erano diverse, numerosi sempre i pashtun che vivevano di qua e di là al confine, ma anche baluch dai grandi baffoni e dai pantaloni alla zuava. Il motore dell’autobus fumava, ogni tanto una gomma schiantava e bisognava fermarsi a farla riparare in qualche villaggio remoto. Tutti giù ad aspettare su un piazzale, o a giro a bersi un bicchiere di tè, nessuno si spazientiva, nessuno imprecava, i bambini schiamazzavano e correvano felici. Ad alcuni mancava una mano o un piede, per via delle mine, e non appena fermo l’autobus, erano i primi a scendere, abbandonando la stampella per correre a saltelli dietro al pallone. Le donne si accovacciavano in vista, allargavano i burqa come una tenda e sotto facevano la pipì. Mancavano ancora ore di viaggio, ma oltre le montagna c’era Quetta, c’era il suo paese e c’erano coloro che lo dovevano ammaestrare.

A Milano, gli avevano spiegato molte cose che, per vie misteriose, non gli risultavano nuove. Sul viaggio, quasi niente: un numero di telefono a Kabul dal quale ebbe un altro numero di Kandahar, senza dettagli, senza nomi, e così via fino al confine. Meno sapeva, dicevano, e meglio era. Tanto avrebbero organizzato tutto loro, nel più infimo dettaglio, e così avvenne. E tuttavia, Tariq Ali era riuscito a carpire qualche indizio da altri giovani come lui, nella moschea. Non sapeva se fossero solo voci, ma un quadro sfuocato e allo stesso tempo plausibile era uscito fuori dai pochi discorsi sussurati. Quanto bastava a farsi un’idea. Quel percorso verso sud-est era l’asse più importante, ormai, lungo il quale correvano i carichi di armi e di quel bene prezioso che era l’oppio e, a ritroso, dei guadagni enormi che ne scaturivano. Tutto in pick-up scalcagnati, carrettini, a dorso d’asino … L’importante, di volta in volta, era arrivare in fondo al viaggio senza intoppi. Quetta, la sua città natale, era il centro di smistamento dove s’incontravano le parti interessate e, anche in questo, vi era una specie d’inevitabilità nell’incontro tra il suo destino personale e la sopravvivenza della sua gente. Resistere, questo era lo scopo finale, resistere all’annientamento delle proprie usanze e della propria causa. Non era un diritto di tutti i popoli? Perché e in nome di che cosa veniva loro negato? Tariq Ali era convinto ora che la sua scelta fosse giusta e guardava alla sua esperienza in Italia come un tradimento da riscattare.

Resistere era meno difficile di quanto sembrava. I capi non avevano detto quasi niente e restavano sul generale. E tuttavia alcune cose avevano colpito Tariq e lo avevano fatto riflettere. Le forze occupanti, grandi per potenza militare e finanziaria, erano asserragliate nelle loro mega-fortezze, tanto più imponenti quanto più vulnerabili. Non capivano niente dell’arcipelago tribale formato dai nemici e davano alle sue provocazioni risposte massicce, quanto mai prive di agilità e quindi di efficacia. Faceva ridere la cecità della Coalizione internazionale rispetto alla realtà sul terreno, pareva quasi incomprensibile ma di sicuro era un pegno di successo per gli insorti. Non capivano, americani, australiani, italiani, che l’Afganistan aveva vinto tutti gli occupanti precedenti quasi senza armi e senza mezzi, solo con la sua capacità di sacrificarsi. Milioni di persone erano morte per questa causa, in passato, e gli occupanti erano sempre stati cacciati. Ora cercavano di darsi sottili strategie basate sui loro principi di gente civile. Ma l’Afganistan non voleva essere aiutato, ricostruito, protetto, rincivilito, voleva solo essere lasciato in pace, libero di risolvere i suoi problemi e di vivere la vita secondo le regole secolari della sua variegata gente. Aveva troppo sofferto per aver paura della sofferenza. No, la sofferenza non era il suo problema, per questo avrebbe resistito anche questa volta, con l’aiuto di Dio. Lì era stata alzata la bandiera che ora sventolava anche in Pakistan, in Iraq, in Palestina, in Iran…

Il lungo nastro di asfalto grigio. Tutto intorno, il deserto, la polvere spaventosa che penetra in ogni angolo dell’autobus, si annida nei vestiti, nei capelli, sulle sopraciglia, nel naso e in bocca, se non vi si pone una pezza. Interminabili ostacoli. Soldati stranieri con i posti di blocco, tutti con gli occhialoni scuri a nascondere il viso, le stesse bardature, le stesse macchine di morte, e gli sminatori e ovunque bambini che corrono qua e là a curiosare a loro rischio e pericolo, specie quando passano le colonne degli invasori, proprio per via delle mine e delle macchine degli attentatori ormai comunissime, imbottite di bombe, che stanno in attesa dei mezzi militari sul ciglio della strada, americani, qui canadesi, altrove inglesi, italiani o australiani.

Un unico colore. Le basse case di fango in cortili di terra battuta, tutte uguali, che rendono il paesaggio tutto uguale, grandi pianure desertiche orlate di montagne frastagliate o appena visibili, azzurrine nella lontananza. Mucchi di rocce che somigliano a dinosauri adagiati lì dopo milioni di anni. E i bambini, sempre loro, che sorgono ovunque dal nulla, da villaggi così raso terra da essere invisibili, si fermano stralunati e poi scoppiano in grida assordanti. Si avvicinano ai soldati, ci parlano in chissà quale lingua, guardano soprattutto le armi, affascinati. E chissà cosa capiscono, cosa imparano, niente o meno di niente, oppure tutto. La guerra.

Tariq passò nel dormiveglia il tratto tra Kandahar e il confine, 100 km o poco più, fino a Spin Boldak che era sempre in Afganistan. Lì doveva cambiare, e un pò più in là cominciava il pericolo. Il villaggio che doveva raggiungere era nelle vicinanze di Chaman, sulla frontiera, dalla parte pachistana. Di qua, di là, non c’era differenza. In Pakistan, proprio in quelle zone, la Coalizione da tre anni snidava gli insorti a furia di bombardamenti, radendo al suolo interi paesini, rendendosi nemica tutta la popolazione che non capiva e non poteva capire.
Tariq non si chiedeva il perché delle cose. Adesso che si era addentrato nel territorio della guerra, ci si era subito assuefatto. Provava a dormire ma sentiva i discorsi degli altri passeggeri: se questi sono gli amici, meglio i nemici... Almeno parlavano la stessa lingue, credevano nelle stesse cose, si comportavano allo stesso modo. Non erano difficili da capire come quest’altri con i loro sacchi di grano, gli elicotteri con enormi cannoni appesi, il latte in polvere, i vaccini. Tariq non provava indignazione. Gli sembrava che ogni cosa fosse al suo posto, gli amici e i nemici. Questi erano da combattere e lui era venuto apposta.

Una calca disordinata circondava il posto di confine. Ci voleva pazienza. Tariq ne aveva a iosa, sempre silenzioso e in ascolto. Dentro l’autobus le cose erano diverse, nelle ore di viaggio la gente finiva per parlare più liberamente. Qui, in prossimità di poliziotti e soldati, taceva. Le facce dei viaggiatori diventavano le solite maschere indecifrabili di poveracci, analfabeti, innocenti disarmati. Gli uomini si nascondevano dietro il fumo delle sigarette, le donne dietro la griglia impenetrabile del burqa e, senza saperlo, erano solo gli occhi dei bambini, scuri come acqua in fondo a un pozzo, a raccontare l’inquietudine nel cuore,l’incertezza per un futuro inesistente, la paura del presente. Sentimenti comuni a tutti. Singoli individui, famiglie, etnie… Comunque, Tariq era ormai in territorio conosciuto. Il posto di confine non lo spaventava. Non aveva bisogno delle istruzioni altrui. Lungo una frontiera che non esisteva per i pashtun, suo padre aveva praticato il contrabbando per una vita, portando di qua e di là ogni genere di bene:lavatrici, medicinali, coperte, vestiti, persino mutandine di pizzo rosso molto erotiche che arrivavano puntualmente con gli aiuti internazionali ai profughi e che le donne amavano portare nei fondali segreti del burqa. E in quelle scorrerie di suo padre, legali e legittime perché erano la principale attività economica dell’area, Tariq era cresciuto.

Nelle pieghe delle montagne dopo Chaman, vi erano dei villaggi talmente fusi nel paesaggio desertico che probabilmente risultavano invisibili dall’alto, forse persino dai satelliti. E lì si erano insediati i seguaci, per lo più pashtun, degli estremisti islamici. Tariq raggiunse uno di questi villaggi con un’ape scalcagnata, il cui proprietario gli era stato indicato dai suoi padroni, in uno dei loro soliti messaggi telefonici cifrati.

Era un campo di addestramento a tutti gli effetti, anche se piccolo e scomodo a causa delle montagne sovrastanti. Si presentò cappello in mano, ma sapevano del suo arrivo. Lo aspettavano e fu ricevuto dignitosamente con lunghe sedute intorno a un bricco fumante di tè. Erano cortesi, seppure facessero approfondite domande sul suo passato. Ligi agli ordini ricevuti, sì, però da gente tosta e legata alla propria autonomia. Volevano farsi l’idea loro, senza tralasciare un attimo la tradizionale ospitalità. Tutte cose che Tariq riconosceva d’istinto, per cui non s’innervosì, rispose in modo pacato e veritiero.
Lo misero in addestramento e non fu facile. Tariq Ali era, dopotutto, abituato agli agi occidentali, appena un po’ smorzati dalle ristrettezze delle ultime settimane. Non aveva mai impugnato un’arma, non era molto bravo nel combattimento corpo a corpo e nella pratica del tiro franco. Imparò velocemente. In qualche modo doveva averlo nel sangue o forse era la sua vigorosa gioventù ad avvantaggiarlo. Era felice, provava un senso di appartenenza. Diventò come i suoi compagni, ruvido, semplice, di poche parole, ma di una determinazione paurosa. Prese anche a fumare come loro e a masticare il betel. Lo mandarono in ricognizione, nei mercati dei dintorni, nei caffè. Capì subito che quella era una prova che gli imponevano. Volevano vedere se aveva le doti necessarie di mimetizzazione, la capacità di intrufolarsi nei punti nevralgici, di portare indietro informazioni attendibili e per loro essenziali nel mosaico dell’insorgenza. E lui andò più volte, sempre a piedi o in autobus, invisibile, appiattito sull’ambiente con i suoi indumenti polverosi, le mani callose, le scarpe piegate dietro come vecchie ciabatte.

domenica 18 aprile 2010

Telefonini

Ero a Vinitaly nei giorni passati, per motivi di lavoro. Tra due degustazioni al mio stand, oppure fuori quando andavo a fumare, ho osservato la gente che era tanta, una folla davvero variegata. Uomini maturi con le borse di lavoro rigonfie, completi grigi e la pancia che tira i bottoni della camicia; hostess dalle gambe lunghe fasciate da stivali, sotto gli abitini corti, visioni quasi medievali, se non ché il colore predominante è sempre il nero; trentenni o quarantenni con la testa rasata e gli occhialoni scuri, look tipo Saviano; giovani con i capelli ritti di gel, in gruppo come per farsi coraggio, ridanciani, i volti accesi dal vino. Una specie di carrellata della società di oggi che, tuttavia, non si lascia più afferrare nelle sue stratificazioni. Impossibile dire chi è chi, vivaddio. La moda non è bella ma, di certo, ha livellato ogni differenza, di reddito o di origine sociale o geografica. Sasch, Zara, Benetton, Stefanel e quant’altri hanno prezzi accessibili e impongono di anno in anno le loro scelte estetiche che tutti, veramente tutti, sono tenuti a seguire. I cinesi e i senegalesi vendono borse Vuitton e occhiali Ray-ban falsificati ma, plastica per plastica, credibili lo stesso. I veri ricchi non fanno testo semplicemente perché non si vedono a giro né a Vinitaly, né altrove, viaggiano in auto di lusso, entrano da porte laterali per non essere riconosciuti, alla fiera di Verona frequentano grandi produttori che lavorano esclusivamente su invito, all’interno di stand blindati e oscurati all’esterno da veneziane. Quindi, nel panorama generale, i ricchi non contano o quasi, per quanto egemoni nelle statistiche economiche.

Torniamo allora agli altri, al popolo di tutti giorni, uniformato dal vestiario, dalla musica, dai programmi televisivi. Ma soprattutto dai telefonini, i Blackberry, l’ Iphone con touch-screen, che consentono di arrivare in capo al mondo con incredibile facilità, il Nokia universale e a prova d’imbecille. A Vinitaly, non credo di aver visto una persona che passeggiasse con le mani in tasca. Tutti quanti avevano un telefonino in mano, a guardare i loro messaggi, o incollato all’orecchio. Facce serie o divertite, di gente perfettamente integrata in quel mondo cellulare, mai sola, certamente non sola per scelta o per necessità, con tanti amici, tanti contatti, tanti appuntamenti e progetti da mettere a punto. Un piglio secco e professionale per alcuni, familiare e giocoso per altri. Una sorta di cancellazione dei dubbi personali, delle incertezze. Ognuno importante agli occhi di qualcun altro, importante sia quando chiama sia quando riceve, prova in mano che appartiene, partecipa, conta. Mi sono chiesta “che succede se non squilla il cellulare, se non chiama nessuno?” Un senso di abbandono , di esclusione, una specie di autismo a livello umano e professionale? Infatti, il ritornello più frequente che si sente a giro è dove sei? Non riesco a trovarti, ti devo parlare… Oppure Scusa, ti richiamo fra un secondo, ho un’altra chiamata (sul secondo cellulare o forse il terzo).

Il telefonino a me serve soprattutto per il lavoro e, anche allora, provo un senso d’insofferenza quando squilla troppo spesso. Irrazionale: se squilla vuol dire che deve. Mi è molto utile, lo ammetto, non ne farei a meno, lo tengo attaccato al collo con una cordicella rossa per non perderlo. Il mio numero, lo do ai corrieri, agli agenti, ai clienti, ovviamente anche agli amici, quel numero fa parte della mia identità. Chiedo sempre il numero di cellulare degli uni e degli altri perché potrei non trovarli a casa o in azienda quando ne ho bisogno e sarebbe un guaio. Mi serve proprio, ma con quel particolare marchingegno tecnologico ho un rapporto di amore-odio perché spesso invade la sfera privata, mi tira fuori dal cesso, dalla doccia o dal letto, mi distoglie da un libro o da una conversazione, mi obbliga a fermare la macchina quando ho furia e ho sempre furia. Il telefono di casa, un tempo, se ne stava fisso in corridoio o nel tinello, poteva strillare quanto voleva, se non c’eri non c’eri, ti dava la possibilità di fingere di non esserci. Esisteva una distanza tra te e l’oggetto che poi si è accorciata. E’ arrivata la segreteria telefonica, altra schiavitù, poi il telefono è diventato cordless, poi ha lasciato il posto a questo fratellino stridulo e perentorio. E’ solo uno strumento, direbbe mio figlio se mi leggesse. A me pare che sia molto di più ormai, ci tiene legati a guinzaglio e ci conduce chissà dove, senza chiederci il permesso. E questo che mi dà fastidio, anche se a forza di usarlo, sto diventando sorda.

mercoledì 14 aprile 2010

Tariq Ali Khan - 1


Era già notte quando l’aereo iniziò la discesa verso Kabul. Non vide il deserto, le montagne, la conca dove giaceva la città che gli parve molto grande a causa di quell’inganno di oscurità e delle innumerevoli luci. Il cuore gli balzò in gola. Era dunque arrivato. Da dove e verso dove? Non solo da quali luoghi verso quali altri, ma anche da quali circostanze verso quali altre?

martedì 13 aprile 2010

Cuore di tenebra

Finite le vacanze di Pasqua, finito la maratona di Vinitaly, eccomi qua. Vi propongo un racconto lungo che sarà servito in più parti, con un post settimanale. Tratta di una realtà che mi sta a cuore perché vengo da quelle regioni, e che dovrebbe essere conosciuta e seguita da tutti giacché è il cuore di tenebra della politica internazionale dei prossimi mesi, se non dei prossimi anni: dalla risoluzione o non risoluzione dei problemi che rappresenta dipendono la configurazione del monde in cui viviamo, l'equilibrio tra gli Stati, la convivenza tra i popoli.
Il racconto è in chiave minimalista, ma s'inserisce in un quadro più grande, l'Afganistan circondato da Iran, Pakistan, Asia Centrale, paesi che intrattengono tra di loro e con il mondo rapporti di estrema, quasi irrisolvibile complessità. Le premesse di questa situazione risalgono all'Ottocento, a ciò che ormai comunemente viene chiamato "Il Grande Gioco", in cui Russia zarista e Inghilterra imperiale si contendevano l'egemonia di queste regioni, vuoi per ragioni commerciali, vuoi per motivi politici di creazione di sfere d'influenza e di contenimento dell'avversario. I paesi di quest'area ne erano le semplice, irrilevanti pedine, senza che le loro tradizioni, la loro cultura, e la loro realtà economica e sociale fossero oggetto di considerazione. Da attori di primo piano all'epoca della via della Seta, sono caduti in uno stato di subordinazione avvilente.
Gli Stati egemoni sono cambiati oggi, non più la Russia Zarista, l'Unione Sovietica o l'Inghilterra imperiale, ma il Pakistan e l'Iran, entrambi nucleari, la Cina risvegliata e affamata di rotte per il passaggio del petrolio, l'India in chiave minore e soprattutto in opposizione al Pakistan. Le esigenze di questi nuovi dominatori sono molteplici e agiscono come forze centrifughe che tendono a dilaniare piuttosto che a comporre. A generare uno stato di caos che finisce con snaturare in modo irrecuperabile l'identità di quei popoli. Oggi, in Afganistan, la riscossa viene dalla droga e dall'integralismo e, per motivi che appaiono chiari, non può che essere violenta, corrotta e arbritaria. I paesi occidentali vorrebbero introdurvi la democrazia a dispetto di ogni logica, e si rifiutano di riconoscere che questa terra è ormai il buco nero dell'Oriente. Indietro non si può tornare. Avanti, non si riesce ad andare. Più nessuno sembra in grado di controllare il caos, dirimere le contese, imporre soluzioni. La guerra è diventata l'unica soluzione. Qualcuno vincerà e non sarà necessariamente il più buono. Potrebbero senz'altro vincere i Taliban.

A domani, la parte prima del racconto intitolato Tariq Ali Khan.