mercoledì 14 aprile 2010

Tariq Ali Khan - 1


Era già notte quando l’aereo iniziò la discesa verso Kabul. Non vide il deserto, le montagne, la conca dove giaceva la città che gli parve molto grande a causa di quell’inganno di oscurità e delle innumerevoli luci. Il cuore gli balzò in gola. Era dunque arrivato. Da dove e verso dove? Non solo da quali luoghi verso quali altri, ma anche da quali circostanze verso quali altre?

L’inizio, il punto di partenza, da solo, era un indizio insufficiente. Poteva essere uno qualsiasi e aprire uno di tanti scenari. Perché quello, allora? Destino? No. Piuttosto concatenazioni casuali, avvenute senza una ragione precisa, e tuttavia inevitabili. Ed eccomi qua, pensò Tariq Ali, guardando dall’oblò la terra che si avvicinava. Era in preda all’eccitazione, ma non capiva se per la felicità o per il timore. Temeva anche l’accoglienza che avrebbe incontrato, lui giovane pachistano in una terra di droga e di rivolta, per di più occupata da un sospettoso esercito occidentale.
Le sue motivazioni erano plausibili: veniva a trovare sua sorella, il cui marito afqhano era rimasto sepolto sotto il bombardamento del villaggio di frontiera dove risiedevano entrambi. Non occorreva nessuna prova, bastava il nome, in un paese ormai senza nomi e senza volti. Come dare prova dell’identità di una vedova analfabeta vestita di burqa che abitava in un villaggio sperduto? In verità, la sorella esisteva e suo marito era davvero morto sotto i bombardamenti. Niente di più naturale se lui, il fratello stabilito felicemente in Europa, veniva in suo aiuto. I documenti di Tariq Ali erano a posto: il passaporto pachistano, la carta di soggiorno italiana dove appariva come aiuto cuoco a tempo indeterminato in un albergo della costa tirrenica, il contratto di lavoro, la patente italiana... Tutto autentico, con tanto di timbro di consolati e questure. Sarebbe bastato? Poteva essere una spia, un infiltrato. Era un infiltrato.
Tariq Ali tastò la tasca interna della giacca dove aveva riposto quelle carte, trattenne l’impulso di tirarle fuori per verificare che erano tutte lì, in buon ordine. Intanto l’aereo aveva toccato terra e un brusìo si propagò tra i passeggeri che erano pregati di restare seduti fino all’arresto completo del velivolo. Un’ultima volta si chiese che ci sono venuto a fare qui? Era troppo tardi. C’é sempre un momento in cui il cerchio si chiude. Non poteva tornare indietro. Del resto, la decisione non gli era mai appartenuta. Da un certo punto in poi...
“Tu sei un ragazzo a posto,” gli diceva il suo amico italiano, il giovane di buona famiglia che lo aveva preso sotto l’ala, lo aveva aiutato a prendere la patente portandolo in giro in guida accompagnata, gli aveva insegnato a parcheggiare e a rispettare gli stop.
“Sì, lo so, vorreste venire a lavorare con me. Però nella mia azienda agricola ti toccherebbe lavorare come bracciante. Il lavoro nei vigneti è troppo duro e tu, un mestiere ce l’hai. Basta che tu faccia la persona seria e in capo a pochi anni puoi chiedere la nazionalità italiana.”
Sogni ormai. Sogni di mille anni fa che solo pochi mesi addietro sembravano sul punto di realizzarsi. Tutto era cominciato quando suo fratello venne a trovarlo da Milano in una Twingo nuova fiammante, una bella macchina bianca in cui l’odore di nuovo prevaleva ancora, malgrado quello delle sigarette che il fratello fumava in continuazione.
Suo fratello si chiamava Mansour Ali Khan e aveva dieci anni più di lui. Gli somigliava come un gemello: stesse sopracciglia dritte e nere, stessa bocca delicata sotto i baffi, stessi occhi scurissimi ombreggiati da lunghe ciglia. Mansur amava Tariq più di qualunque altro essere umano e lo viziava, ora più che mai con l’agiatezza che si era costruita lavorando a Milano. Fu così che Tariq lo supplicò di lasciargli la Twingo per qualche giorno e di tornare a prenderla alla fine della settimana. Mansur accettò di buon grado, era così felice di accontentarlo.
Tariq aveva preso qualche giorno di ferie per godersi la bella macchina. Portava occhiali scuri per darsi un tono e lasciava penzolare con disinvoltura il braccio sinistro fuori dal finestrino. In quei giorni, portò spesso in giro il suo amico italiano che gli diceva:
“Vedi, una macchina nuova è più facile da guidare, c’è il salva sterzo, i freni funzionano bene. Ma non devi prendere troppa confidenza, è ancora presto. Stai solo imparando.”
Tariq si scocciava o, piuttosto, rideva sotto i baffi. Si sentiva perfettamente padrone dell’auto, anzi, del mondo. Questa gente ha tutto, pensava, ma ha paura di vivere. Finché un giorno non entrò in una rotatoria a velocità troppo alta senza rispettare lo stop. La piccola auto andò a schiantarsi contro una potente mercedes. Tariq Ali ebbe un braccio fratturato, il naso rotto, i sogni in frantumi. Abbandonò il veicolo in stato di shock e vide l’ammasso di ferraglia che era diventata l’amata Tw ingo. Chiamò l’amico italiano e gli disse “ho distrutto la macchina.”
Seguirono giorni di selvaggia disperazione. Tariq fece il giro dei carrozzieri, degli assicuratori. Dodicimila euro di danni alla mercedes e la Twingo tutta da rifare. A spese sue, giacché la colpa era sua. E c’erano ancora le rate di acquisto da pagare, quasi l’intero prezzo della macchina insomma. Il famoso interesse zero sarebbe saltato, se le scadenze non venivano rispettate. Suo fratello non lo rimproverò e neanche, per una volta, offrì di aiutarlo. Se la doveva vedere lui. Tariq andò da certi muratori che frequentavano un bar siciliano vicino alla stazione. Ci giocava a poker ogni tanto e sapeva che erano pieni di soldi. La notizia dell’incidente aveva già fatto il giro del paese e riempito le pagine locali del giornale. Lo accolsero con grida divertite e pacche sulla spalla, come se fosse tornato dalla guerra. Uno di loro, uno tarchiato che era a capo dell’impresa edile, tirò fuori il libretto degli assegni e ne firmò uno da venticinque mila euro.
“Tutto risolto”, disse, “ora beviamoci su.”
“Offro io”, disse Tariq.
“No, tu pensa a pagare gli interessi”, rispose l’altro.
“Quanto?” chiese Tariq.
“Ci mettiamo d’accordo, ora beviamoci su.”
Tariq mise l’assegno in tasca e svuotò un boccale di birra. Aveva fretta di parlare con suo fratello. Insieme al sollievo, provava paura. Non sapeva come dirglielo, e doveva conoscere le condizioni di quel prestito. Non poteva più rifiutarlo. Quella gente era suscettibile, l’avrebbe considerata un’offesa. Tariq non chiamò suo fratello, si ripromise di farlo non appena sapeva qualcosa di più. Chiamò invece il suo amico, quello della guida e gli raccontò tutto.
“Per la miseria, Tariq, non ti bastava avere sfasciato la macchina? Ti sei messo in mano agli strozzini. Sei matto, te lo dico io. E come li ripaghi quei soldi? con il tuo stipendio di aiuto cuoco? Non basterà a pagare gli interessi.”
“Che faccio adesso?”
“Rendi l’assegno.”
“Non posso, quelli sono pericolosi, sempre con il coltello in tasca.”
“Ci dovevi pensare, accidenti!”
“Io sparisco.”
“Con i loro soldi?”
“Se ti chiedono di me, non devi dire che mi conosci. Ricordatelo.”
“Mica scemo. Quelli verranno a cercarti, sicuro.”
Non aveva dimenticato, Tariq, di versare l’assegno sul suo conto, ed era entrato così, a piè pari, nella zona di pericolo. Da quel punto in poi lo avrebbero sorvegliato da vicino. La valuta era a sei giorni i quali furono, per lui, una strana pausa, vuota di pensieri e di paura. La notte prima d’incassare restò sveglio a mettere insieme qualche piano, poi dormì fino a tardi e quando si svegliò, era calmo, sapeva quello che doveva fare. La banca era vicina al bar dei muratori nei pressi della stazione, e con quelle dannate porte di sicurezza, bisognava entrare uno per volta. Attese quasi fino all’ora di chiusura pomeridiana, ritirò tutto il denaro, buttò via il cellulare. Era deciso ad andare via, ma non a Milano da suo fratello.
Il viaggio in treno lo portò a San Remo in perfetto orario. Arrivò al casinò alle undici di sera, entrò senza guardarsi intorno. Non aveva intenzione di fermarsi molto, sperava che non ce ne sarebbe stato bisogno. Prese tante fiches quanti soldi aveva con sé, tranne quelli che li servivano per arrivare a Milano. Poi si mise a giocare. Era la prima volta. Dopo un accurato sopralluogo, scelse la roulette che gli pareva più semplice. Non c’era niente da capire, c’era solo da pregare che la pallina si fermasse nel posto giusto. Per diversi giri, non successe e Tariq cominciò a perdere. Scese di ventimila euro, ma non si spaventò. Anzi, non provò nulla. Il suo sguardo rimase impassibile sotto la linea continua delle sopracciglia. Era sull’ala di una sorta d’incoscienza e, tuttavia, il suo cervello continuava a funzionare. Forse erano le circostanze. Non poteva fermarsi, doveva arrivare fino in fondo. Poi, senza motivo, cominciò a vincere, diecimila, ventimila, venticinquemila, quaranta, cinquanta... A sessantamila, si fermò. Di nuovo non provò nulla tranne, forse, un po’ di sorpresa. Quella vincita era successa perché doveva succedere, secondo un disegno arcano che neanche cercava di capire. Non era una cosa meritata o dovuta, lui non c’entrava niente. La nausea, l’attribuì allo stress dei giorni passati, all’altalena di emozioni. Ora, mentre aspettava il primo treno per Milano nella sala d’attesa della stazione di Genova, era in uno stato di quiete e si poteva guardare intorno. Aveva la sensazione di essere un angelo seduto su un minareto a contemplare lo strano mondo che si dispiegava sotto i piedi. Era appena l’alba, ma nell’enorme caverna che era la stazione di Genova era difficile distinguere l’ora del giorno. La sala d’attesa era stata riaperta, ed era già piena di barboni, gente dall’età indefinita. Dormivano avvolti in indumenti rigidi di sporcizia. Intorno a loro aleggiava un odore insopportabile soprattutto di alcol. Tariq Ali si era scelto un posto lontano da tutti, ma non poteva non vedere quanto fossero diversi, abbandonati, questi poveri, rispetto a quelli di casa sua che erano storpi, malconci, ma svegli. Non abbruttiti come questi. Tutto sommato, almeno la povertà era migliore a casa sua.
In quel momento non volle farsi domande, né usare le testa come diceva il suo amico italiano. Sentiva di dover lasciare da parte i paragoni, le polemiche, perché tutto tornasse semplice intorno a lui, comprensibile. La cosa di cui aveva più sofferto da quando era arrivato, era l’obbligo di giustificarsi. A lui, lo sapeva, non era dato essere quel che era, pensarla a modo suo, doveva dare prova di… C’era sempre il rischio di essere accusato di qualcosa. “Nel tuo paese, tutto tranquillo?” Quanto odiava questa domanda. Avrebbe voluto rispondere: “No. Il mio paese è una polveriera sul punto di esplodere. Di lì verrà la rovina dell’Occidente.”
Si vergognava della propria ingratitudine. Ma era già un po’, se ne accorgeva solo adesso, che s’irritava persino con l’amico italiano, così buono e aperto, il quale spesso gli diceva: “Rilassati, non ti chiudere a riccio. Devi prendere il tempo di capire le cose, con la tua testa, senza pregiudizi.” Lui non rispondeva niente e il suo silenzio pareva un assenso. Non lo era, giacché Tariq era convinto che fosse impossibile per uno come lui condividere la libertà di pensare e di agire che qui sembrava un bene di tutti. Questa impossibilità gli pesava sul cuore e lo teneva sempre sulla soglia del rifiuto. Troppo tardi provava nostalgia per quell’amicizia perduta. Quel ragazzo era diverso dagli altri, riflessivo e generoso, su di lui poteva contare fino in fondo. Non sugli altri, questo era il punto. Lo aiutavano solo perché aveva bisogno e così facendo potevano credersi migliori di quel che erano. La loro compassione lo umiliava, anche di dover sorridere e ringraziare. L’albergatore gli pagava il minimo sindacale, quel muratore siciliano con il suo maledetto assegno da strozzino, lo aspettava al varco. C’entrava solo l’interesse.
In fondo, la storia dell’assegno era arrivata a puntino e d’un tratto aveva messo ogni cosa al suo posto. Era doloroso ma anche giusto così. Tariq poteva andare a diritto ora, senza farsi venire altri dubbi.
Scese dal treno a Milano e prese la coincidenza per un paese vicino dove abitava e lavorava suo fratello. Si sentiva sicuro di sé, con il portafoglio rigonfio. Poteva persino tornare a casa e restituire i soldi, ma non era sicuro di volerlo fare. Era quasi meglio ricomprarla nuova, la twingo, e tenersi quel che restava. Ne avrebbe avuto bisogno.
Suo fratello era ancora al lavoro quando giunse e la cognata lo accolse freddamente, quasi non gli rivolse la parola. Non si azzardò certo a fargli dei rimproveri. Tariq si mise davanti al televisore subito dopo pranzo e finì per addormentarsi. Alle sette di sera, arrivò suo fratello, pieno di segatura fino alle sopracciglia giacché lavorava da carpentiere. Gli lanciò un’occhiata e s’infilò nel bagno. Tariq Ali approfittò del momento per stendere sulla tela incerata del tavolo le banconote, ed erano tante. Poi si rimise a guardare la televisione.
“Dove li hai presi?” chiese Mansour alle sue spalle e quando Tariq si girò verso di lui, gli lesse chiaramente il pensiero nello sguardo.
“Non li ho rubati,” disse.
“Allora mi puoi dire dove gli hai presi.”
“Non ti riguarda.”
“Droga?”
“No. Non ti riguarda, ti dico. Prenditi i soldi della Twingo, comprala nuova. Paga le rate della vecchia.”
La cognata si affacciò dal cucinotto e spalancò gli occhi alla vista delle banconote. Tariq Ali si alzò.
“Prendi i tuoi soldi che devo andare.”
“Resta.”
“Ho fretta.”
“Resta almeno a cena.”
“Non posso.”
“Ma dove vai a quest’ora?”
“ A Milano.”
“E da chi? Non conosci nessuno a Milano.”
“Conosco le persone giuste.”
“Da quando in qua?”
“Da sempre, ma non lo sapevo.”
Mansur, d’un tratto, si rabbuiò. Scrutò Tariq in silenzio, notò la sua espressione impassibile, diversa da quella abituale quando erano insieme. L’inquietudine invase il suo sguardo.
“Torni a casa?”
“No, non subito.”
“Allora che intendi fare?”

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