martedì 4 maggio 2010

Tariq Ali Khan - 3

Tariq Ali ascoltava. La tensione era forte. Sulle strade l’oppio e le armi viaggiavano con più difficoltà e se la situazione peggiorava, l’insorgenza correva il rischio di trovarsi in brutte acque finanziarie. Erano scontenti tutti, i capi politici insediati a Quetta, i potenti trasportatori che operavano su una rete ramificata fino in Asia Centrale, in Turchia, sul Golfo, fino in India e in Europa, e anche i contadini che con l’oppio vivevano. Si diceva che gli stranieri avrebbero bombardato i campi pur di togliersi quell’affanno della droga che rovinava i loro paesi. Fu allora, nelle sue visite ai bazar, che Tariq, mescolato alla folla di nullatenenti e disoccupati che da sempre popolavano strade e mercati come questi, capì quanto fosse ampio il supporto della gente agli insorti. Come poteva l’esercito straniero venirne a capo? Sarebbe bastata la potenza, la ferocia o la superficiale bonarietà? E tuttavia, si rese conto che gli umori nella galassia variegata dei capi erano mutevoli, e continue le lotte interne tra diverse fazioni, seppure sotto il cappello della grande Jirga. Il controllo del territorio era ormai assicurato, ma la diversità d’intenti rendeva le cose fragili. La religione stava diventando un pretesto, l’autonomia tribale contava sempre meno, e di più, molto di più contava una pragmatica gestione degli interessi e degli intrecci politici. E lui, umile messaggero, spia, fattorino, stava attento a non fare passi falsi, a non dare la sua opinione, a non dire una parola in più.

A raso terra, anche nel suo campo di appartenenza come in tutti gli altri della stessa dimensione, il dilemma c’era. Chi seguire a questo punto? Spesso incomprensibili gli ordini delle sfere più alte. Ubbidire a quelle strategie di più ampio respiro o farsi carico di azioni che assicuravano l’autonomia dei capi locali e dei loro consigli in miniatura, azioni che avrebbero potuto metterli in prima fila nella ressa d’insorgenti che, di qua e di là al confine, cercavano di dettare la politica internazionale e rivendicavano l’attenzione delle grandi televisioni? Gli anziani restavano legati a doppio filo al Corano. Molti di loro si rifacevano alle proprie esperienze sul campo, negli anni di lotta contro i sovietici e contro i valletti comunisti da loro messi al potere. Erano veterani di una guerra diversa, paziente e di lunga durata, fatta di attese e di agguati cruenti in cui spesso erano mozzate le teste dei soldati nemici, per poi servire da preda nelle sfrenate partite di buzkashi.

In tempi più recenti, dopo la guerra fratricida tra fazioni della stessa fede, ne era emersa una vittoriosa, prendendosi il governo dell’intero Paese. Poi era stata cacciata dalla potente Coalizione, nella scia gli attacchi all’America, ma non era sparita. Era ormai troppo radicata nelle popolazioni e si portava dietro l’adesione dei combattenti di altre guerre. Da anni il mosaico dell’insorgenza si arricchiva di molti nuovi elementi, arabi, turchi, ceceni, kashmiri, fedeli alla bandiera dell’Islam e della rivolta, ma ognuno con propria fisionomia e rivendicazioni nazionali. Forza e debolezza insieme di uno Stato insediatosi nel cuore degli Stati della regione, con la testa dell’idra, dove i leader diventavano sempre più occupati nella gestione del proprio potere. La vera forza vitale erano i giovani, capi e soldati, e avevano fretta non di governare, ma di combattere.

I compagni di Tariq erano uzbeki, yemeniti, egiziani, persino un anglo-africano, immigrati per convinzione o per necessità. I pashtun erano perlopiù ragazzi cresciuti fuori da ogni regola tranne la sopravvivenza, nei campi profughi sul confine pachistano. Avevano scoperto tutti i mezzi per difendersi, riempirsi le tasche di denaro, barattare notizie e strappare informazioni. Maneggiavano armi ed esplosivi con disinvoltura. Premevano per entrare in azione, stanchi di dover fare i contadini di giorno come copertura, nell’attesa che accadesse qualcosa. Pensavano di conoscere meglio la situazione sul terreno, gli spostamenti di truppe, i pericoli incombenti. E sui vecchi avevano davvero qualche vantaggio. Di oppio erano sempre provvisti e, nei vicoli di Quetta, esso era la merce di scambio per acquistare portatili e telefonini ultimo grido con videocamere, relative chiavette per collegarsi a internet e altre, minuscole e potentissime, da portarsi appresso, nelle tasche profonde, per archiviare documenti e foto. Avendo imparato subito a leggere i siti dell’insorgenza, a mandare messaggi e-mail, inviare e ricevere sms, erano molto informati. Per vie misteriose riuscivano a impadronirsi di ogni strumento nuovo con disinvoltura e intasavano l’etere con un chiacchiericcio continuo, in cui ogni parola aveva un significato diverso, ogni nome ne copriva un altro. Senza saperlo, si affrancavano dalle regole ferree della vita tribale e anche dalla tutela religiosa. Era a loro che si rivolgeva la nuova generazione di capi che, per ora, si era solo affiancata a quelle vecchie e manovrava per prenderne il posto.

Tariq era l’ultimo arrivato nel campo e il meno preparato. Intanto, mentre imparava, vedeva scomparire l’uno dopo l’altro quegli addestrati prima di lui: Idris, il nigeriano che si era dato il nome di Abu Taleb, inviato a compiere un attentato contro un aereo di linea in Europa, arrestato, e forse era il più fortunato; Ashraf, figlio di ricchi egiziani che aveva scelto la rivolta ed era morto su una strada di Herat, facendosi saltare in una toyota al passaggio di un convoglio italiano; il giovanissimo Hamza, a lui il più caro - era yemenita e gli aveva insegnato tutto sulle bombe - ucciso dalla raffica di mitra di un soldato straniero mentre correva diritto sul suo vecchio scooter-bomba verso un posto di blocco. Ebadullah, l’afghano dagli occhi tristi che, dopo essersi incatenato addosso una cintura di esplosivi, se la fece esplodere durante un rito sciita in una moschea di Zahedan. Tutti sapevano di questi fatti ma li tacevano per proteggersi da se stessi. Tariq, come gli altri, era triste e si poneva delle domande. Non conosceva le risposte e neppure era sicuro di volerle conoscere. Sapeva solo che si avvicinava il momento. A mano a mano che diventava più bravo, cresceva la sua paura. E lui la frenava, la ricacciava indietro e si attaccava alle sue convinzioni degli ultimi mesi. Da quel cerchio infernale che gli si era stretto intorno non poteva uscire. Non c’era modo. E quando qualcuno dei suoi amici gli sussurrava “hai paura?”, lui rispondeva freddamente “si, ho paura, fa parte del nostro lavoro”. Era un modo per sdrammatizzare.

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