martedì 18 maggio 2010

Tariq Ali Khan - 4

Era un altro uomo. Se avesse voluto guardarsi allo specchio, si sarebbe stupito di vedere una faccia sconosciuta, magra, indurita dal sole e dalle intemperie, le occhiaie profonde, i capelli nascosti dal largo turbante nero che aveva rimpiazzato la ciambella color terra indossata tradizionalmente dai pashtun, la barba, infine, cresciuta piuttosto rada e incolta, non molto pulita. Tranne le abluzioni rituali, seppure perfettamente eseguite ogni giorno, non c’era modo di lavarsi a fondo. Tariq non se ne curava da tempo. Si era come dimenticato di se stesso, del ragazzo che era stato, dei suoi sogni italiani e non lasciava riemergere alcuna immagine del passato. Fu la paura a ricordargli che esisteva, a ricordargli la sua realtà in carne e in ossa che, da un giorno all’altro, rischiava di andare a pezzi. Non capiva la morte, non riusciva neanche a immaginarla. Allora si chiedeva quale era preferibile: quella di Ashraf, di Hamzah, di Ebadullah? La cintura, dicevano in molti ormai. Era praticata con ottimi risultati dai fratelli iracheni, consentiva di arrivare sul bersaglio senza farsi notare. Un poveraccio somiglia a mille altri poveracci e passa inosservato semplicemente perché nessuno lo guarda. E, forse sì, quella morte sarebbe stata preferibile perché istantanea.

La neve era scomparsa da tempo. Era passata la primavera, quasi inosservata ed era arrivato il gran caldo, tempo di guerra per eccellenza. Tariq Ali dovette fare fagotto. Lo rimandavano indietro, nello Helmand, e si doveva stabilire a Garmsir, cittadina nella parte meridionale del distretto. L’offensiva comune degli americani e degli inglesi aveva raggiunto l’obiettivo e, dopo vere battaglie, con i nemici che si fronteggiavano a suon di artiglieria, gli stranieri erano ormai riusciti a fare sloggiare gli insorti. Costoro avevano girato i tacchi. I contadini erano tornati con le loro famiglie, avevano ripreso i lavori nei campi, riparavano tetti e muretti di cinta sbrecciati dalle sparatorie. Si lasciavano avvicinare dalle truppe inglesi rimaste, e ascoltavano le offerte di danni di guerra, di aiuto per il ripristino del sistema d’irrigazione che prendeva l’acqua dal vicino fiume. Una tregua insperata di cui approfittavano gli insorti per mimetizzarsi definitivamente con la popolazione. Tariq Ali, con loro.

Lo avevano indirizzato al bazar di Darweshan che aveva ripreso l’attività a pieno ritmo. Passava molto tempo seduto sulla soglia della bottega di un barbiere, bevendo infinite tazze di tè nell’attesa che gli fossero riferite le notizie che portavano i clienti e soprattutto in attesa degli ordini dall’alto. La notte, era ospitato nell’unica stanza del barbiere e lì stava anche il fratello, privo di gambe. Gli erano saltate via durante la battaglia di Helmand, mentre stava parlando al suo capo, a riparo di un muretto. Un drone era passato sopra di loro, ne aveva identificato l’esatta posizione e li aveva colpiti. Il capo era morto e lui era rimasto gravemente menomato. I suoi compagni lo avevano caricato su un pick-up, nascondendolo sotto le balle di mais per la prossima semina. Lo avevano portato all’ospedale degli italiani a Lashkar Gah, dove nessuno faceva domande. Era tornato a casa con due moncherini al posto delle gambe. Non poteva più chinarsi verso la Mecca, ma era ancora vivo e ora sedeva giorno dopo giorno su uno stuoino, a rimpiangere il suo passato di guerriero. Era lui il vero referente di Tariq, gli raccontava come erano andate le cose, gli spiegava come dovevano andare.

Cominciarono a uscire, a farsi vedere insieme. Era necessario per meglio fondersi nel paesaggio e non dare nell’occhio. Tariq spingeva la sedia rotelle dell’amico, costruita con assi di legno e ruote di bicicletta. Facevano un breve tratto fino al campetto del barbiere e Tariq sarchiava, zappava e ascoltava i discorsi di Sardar, mormorati con voce cupa. Gli spiegava come le nuove leve di combattenti insorti avevano riportato in primo piano la guerra santa. Pashtun sunniti contro gli sciiti oltre il confine iraniano, kashimiri mussulmani contro indù, uzbechi mussulmani contro la Russia non più comunista ma prepotente lo stesso, pronta a soffocare le istanze religiose che potavano dilagare nella regione, pachistani mussulmani contro americani non solo cristiani ma anche egemoni, con i loro soldi e la loro pretesa di dettare legge al governo di Rawalpindi. Il segno vero dell’insorgenza era l’Islam e caratterizzava, più dell’oppio, la lotta raso terra, fuori dai giochi d’interesse dei grandi capi. Tariq riusciva a focalizzare le cose meglio che in passato. Sapeva che Sardar non stava fornendo la sua personale opinione, gli descriveva un nuovo aspetto della situazione. Ciò provocava in lui l’amaro rimpianto di aver rinunciato così a lungo ai dettami sacri dell’Islam, di aver desiderato con passione le ricchezze dell’Occidente, le carni impudiche delle donne sulle spiagge italiane, una libertà che gli aveva fatto perdere il senso della propria dignità. Voleva pagare l’errore, meglio ancora con la morte.

Era chiaro ormai che gli insorti non potevano confrontare i nemici in battaglia. Dovevano scoraggiarli con azioni mirate e numerose, togliendoli il sonno la notte, tenendoli sempre in stato d’allarme. Dicevano che gli stranieri erano i cani e loro le pulci, innumerevoli, in grado di uccidere il loro ospite. Questa nuova strategia del mordi e fuggi era cominciata in piena estate, e impiegava altri pachistani, più spendibili forse agli occhi della popolazione.

L’arma migliore era quella che gli stranieri chiamavano ieds. Erano ordigni improvvisati che al posto dell’esplosivo, usavano prodotti agricoli, perlopiù concimi chimici facilmente reperibili e gasolio, componenti rudimentali che si potevano comprare in ferramenta, spago, nastro adesivo, filo di alluminio, pile comunissime. C’era anche un’imbottitura di chiodi e bulloni che, nell’esplosione, sarebbero schizzati ogni dove, per recare il maggior danno possibile. Il marchingegno era installato nei bossoli di artiglieria abbandonati sui terreni di battaglia o, alla peggio, dentro una semplice scatola di cartone. Era poi nascosto sotto il ciglio di una delle tante stradine sterrate che correvano tra il fitto reticolo dei fossi d’irrigazione e congiungevano un villaggio all’altro. I grossi mezzi blindati della Coalizione erano costretti a percorrerle a passo d’uomo e non potevano evitare di schiacciare con le ruote quelle mine caserecce. Adesso correva voce che i nemici avessero congegnato un nuovo, indistruttibile veicolo antimina e qualcuno li aveva pure avvistati, ma solo sulle strade importanti. A Garmsir, nella zona verde, aprirne di nuove tra muretti e fossati era impossibile. Gli stranieri erano intrappolati, il loro progresso era rallentato dalla ricerca delle mine. Talvolta ci mettevano una giornata intera per bonificare una strada, e appena credevano di avere superato l’ostacolo, s’imbattevano in altri ordigni micidiali che gli insorti piazzavano avanti avanti a loro. Morivano come mosche, dentro i loro mezzi squarciati, o fuori quando erano costretti ad andare a piedi. Avevano vinto la battaglia dei due anni precedenti, non avevano vinto la guerra, perché la vera guerra era adesso.
Tariq e Sardar sapevano di essere anelli di una lunga catena invisibile. Nella catapecchia dentro l’orto del barbiere fabbricavano i loro strumenti di morte, e nel cuore della notte Tariq andava, vanga in mano, a posizionarli in punti prescelti. Di giorno, volavano gli elicotteri e viaggiavano i blindati, la campagna brulicava di militari. E anche la notte poteva essere pericolosa. Gli successe, così, di imbattersi in una pattuglia alla ricerca dei morti del giorno prima, o in un gruppo di artificieri che a tarda ora non aveva ancora finito il lavoro. Due volte, dovette mollare lì i suoi pacchetti sotto un cespuglio e darsela a gambe. In entrambi i casi, ebbe fortuna. All’alba sentì lo stesso la deflagrazione, segno che qualcuno c’era passato sopra.

I consigli di Hamza erano serviti, niente fili elettrici stesi, niente telefonini: il detonatore era piazzato sotto placche di pressione, e bastava il peso del veicolo, o anche di un uomo a piedi a innescarlo. Tariq non si attardava. Intorno a una zona minata di fresco, c’era solitudine e silenzio. Nessuno si faceva vedere, il passaparola funzionava. I militari occupanti lo sapevano, si spaventavano ad attraversare luoghi completamente deserti. Rastrellavano le case e gli orti nascosti dietro i muretti di terra battuta. Erano venuti anche da loro una sera sull’imbrunire. Tariq e Sardar erano seduti fuori a fumarsi una pipa di oppio. Non c’era niente da trovare, tranne arnesi da lavoro, taniche vuote, qualche cesta di cetrioli. Se n’erano andati, dicendo che la stradina sarebbe stata chiusa l’indomani. Di lì non sarebbe più passato nessuno. Tariq decise un’ultima sortita. L’ordigno era già pronto per ogni evenienza, sepolto in una fila di pomodori. Se chiudevano la strada, di sicuro voleva dire che l’avrebbero usata e non poteva lasciar passare l’occasione.

L’orto del barbiere non era lontano dal ponte sul canale principale ricostruito da poco dagli americani. Quest’ultimi, insieme ai soldati inglesi, avevano svolto anche un grosso lavoro di ripristino di tutto il sistema d’irrigazione realizzato negli anni Cinquanta da una ditta USA, e poi caduta in degrado. L’ideale sarebbe stato attaccare il ponte stesso, dove passavano spesso i mezzi militari, ma non era realistico giacché era presidiato. Per di più serviva anche alla popolazione locale che l’insorgenza non voleva mettersi contro. Tariq scelse un fosso di scolo abbastanza aperto, con una fila di palme a venti metri, una vegetazione più fitta e disordinata appena in paese, che poi diradava prima che le acque si ricongiungessero al sistema principale. C’era un punto preciso che Tariq voleva evitare dove il fosso si slabbrava un poco e correva lungo il viottolo. Lì, le donne andavano a prendere l’acqua e a lavare i panni, e Tariq non voleva morti innocenti sulla coscienza. Più in là, la strada in uscita si faceva un po’ più ampia ma era sconnessa e piena di pietrisco. Aveva visto molte volte i veicoli di passaggio rallentare in quel punto. Le sponde del canale erano friabili e si adagiavano con un pendio leggero nell’acqua. Con poco sforzo avrebbe potuto piazzare il suo pacco rinvolto nella carta marrone.
Quella sera riportò Sardar a casa e tornò indietro che era già buio. Stesse in attesa, fumando, e riflettendo. Finora, era andata bene, aveva raggiunto gli obiettivi e non era morto. Si sentiva più sicuro, anche se il suo cuore pareva un sasso ormai. I soli pensieri che gli frullavano in testa come un ritornello impazzito erano che non voleva morire, non voleva tradire, non voleva uccidere.

Poco prima dell’alba, rinvolto che ebbe la sua scatola in una pezza legata con quattro nodi, uscì dal recinto dell’orto e s’incamminò con la vanga a spalla. Costeggiò la fila di palmizzi poi, tagliando di sbieco, si addentrò nella parte più coperta lungo il canale dove non filtrava alcuna luce. Tariq giunse laddove la sponda era più dolce, scavò velocemente sotto il ciglio e piazzò la mina direttamente sotto il pietrisco, ricoprì il tutto con la terra smossa. Quando tornò sulla strada, gettò un’occhiata all’indietro, vide che non c’era niente da vedere. Procedette a passo spedito. Il sole cominciava a salire e la giornata prometteva di essere rovente. Udì il rombo dei veicoli militari sul ponte. Una pattuglia avanzava in avanscoperta e come Tariq fu avvistato dai soldati, scoppiarono grida di “yallah!Yallah”. Fece dietrofront, il cuore in subbuglio e fu allora che la vide. La bambina che spingeva una carriola con una tanica per l’acqua sopra. Non più di otto anni, un vestitino di cotone scuro che le scopriva le ginocchia. Era quasi all’altezza dello slargo dove le donne abitualmente venivano a fare il bucato. Faticava a guidare la carriola, doveva spingere forte. Tariq, spaventato, prese a correre, urlando “yallah!yallah anche lui, facendo grandi segni con le braccia per farla allontanare. Lei alzò la testa,lo guardò smarrita, rallentò, non si fermò subito. Tariq proseguì la sua corsa impazzita, dentro di lui un unico grido: No! Non lei, non lei!! Gli pareva di volare sul pietrisco. Si accorse all’ultimo minuto di esserci sopra, alla mina. Solo io, pensò. Nient’altro.

Nessun commento:

Posta un commento